Gli ebrei cacciati dall’Egitto di Nasser. Il ricordo di Carolina Delburgo

Quella della piccola Carolina è un’infanzia da favola. Siamo a “Hart el Yahudi”, il quartiere ebraico del Cairo, negli anni ’50, quando la capitale egiziana è uno dei simboli del cosmopolitismo e della gioia di vivere. Nella sua casa, dalle cui terrazze si scorgono il Nilo e le Piramidi, s’intrecciano in armonia lingue, religioni, culture, usi e costumi diversi. Ebrei, musulmani e cattolici condividono le festività e i momenti più importanti della vita.
Prende le mosse da qui, da questo mondo colorato e vitale, “Come ladri nella notte, la cacciata dall’Egitto” (279 pagine, Clueb editrice, 32 euro), il libro di Carolina Delburgo ora presentato (mercoledì 29 ottobre alle 17 a Bologna, nella Biblioteca universitaria) dal giornalista Magdi Allam alla presenza del magnifico rettore Pier Ugo Calzolari e dei rappresentanti delle istituzioni cittadine.
Il volume, di cui una prima e assai più ridotta elaborazione dedicata alla sola fuga dall’Egitto è apparsa nel 2006 a cura della Regione Puglia, propone in questa nuova edizione a cura della Clueb ulteriori documenti e contributi storici a illuminare la vicenda ancora così poco conosciuta degli ebrei espulsi dal mondo arabo. In un costante contrappunto tra storia familiare ed eventi politici Carolina Delburgo, 63 anni, tra i fondatori del Comitato Bologna sanità e conoscenza della cui collana storica fa parte il libro, che da anni ormai vive e lavora a Bologna, ripercorre infatti gli eventi che nel novembre del ’56 vedono il mondo cosmopolita del Cairo infrangersi sull’onda della guerra di Suez.
Da un giorno all’altro, in un esodo che le cronache dei tempi lasceranno passare quasi sotto silenzio, tutti i residenti non considerati egiziani, inclusi tantissimi italiani, sono costretti a lasciare l’Egitto. Carolina e i suoi arrivano profughi a Brindisi. Poi, dopo un soggiorno nel campo profughi di Bocca di Puglia, la famiglia si trasferirà a Napoli dove troverà la forza e il modo di ricominciare e di costruirsi una vita nuova nell’Italia che li ha accolti.

Carolina, cosa ricorda della sua infanzia al Cairo?
Avevo dieci anni quando siamo stati, la mia famiglia ed io, testimoni e vittime, della guerra del Canale di Suez e delle rappresaglie nazionaliste contro gli europei. Vivevamo in una società multi etnica e multi religiosa. Noi bambini, fin dalla nascita, eravamo abituati a stare nella diversità etnica e religiosa. Per il Ramadan, andavo con mamma dalla vicina di casa musulmana, Ommo Ali, per farle gli auguri. A Natale, eravamo ospiti di altri amici e per le feste ebraiche erano gli altri che venivano da noi”.
Era un mondo più tollerante di quello odierno.
“Era un caleidoscopio di religioni, nazionalità, culture, usi e costumi diversi. Eppure si viveva in perfetta armonia, serenità ed equilibrio, senza alcuna distinzione: né etnica, né economica, né tanto meno religiosa. E’ così che io sono vissuta e cresciuta, come, del resto, tutti: bambini ed adulti. Conoscevamo e rispettavamo le altre realtà in modo naturale e spontaneo”.
Anche le sue origini rispecchiano quest’incrocio di genti e di culture.
Mio padre era d’origine italo spagnola e mia madre di origini greca. Entrambi ebrei, erano nati e cresciuti al Cairo, a “Hart el Yahudi“, dove si erano sposati. Non avevano risorse e quindi hanno cominciato a lavorare fin da ragazzi, papà come garzone in una farmacia e mamma come aiuto modista. Lavoravano sodo e presto riuscirono a migliorare la loro posizione. Mio padre divenne primo agente della Philips e mia madre l’estetista privata di signore altolocate, attrici e cantanti. Ci spostammo così in un quartiere elegante. Dalle terrazze sopra il nostro appartamento ricordo che si vedeva un magnifico scorcio del Nilo e, sullo sfondo, le Piramidi.
Poi con Nasser arriva la cacciata.
La sua ascesa al governo diede il via ad una politica nazionalista e panarabista che sconvolse gli equilibri medio orientali. Finchè nel novembre ’56 espulse dall’Egitto tutti gli europei ebrei e cristiani, confiscando i loro beni. Le famiglie si dispersero così in tutto il mondo. Ed è qui che inizia il mio esodo assieme alla mia famiglia.
Quali sono i suoi primi ricordi italiani?
Siamo arrivati a Brindisi con la nave “Achyllèos”. Eravamo circa 300 famiglie accolte in quello che io continuo ancor oggi a chiamare “il mio campo profughi di Bocca di Puglia” e che era, invece, l’ho poi scoperto, la Stazione sanitaria marittima” di Brindisi. Qui siamo restati per circa due mesi: tempo necessario a mio padre, per cercare e trovare un lavoro. Non parlava l’italiano, non aveva più risorse economiche, né sostegno psicologico, né qualche familiare o amico che potesse sostenerlo. Abbiamo lasciato il campo ai primi del gennaio 1957.
E qui inizia un’altra storia. Quasi mezzo secolo più tardi, un po’ per caso, dopo si è ritrovata infatti di nuovo lì.
Sin da allora mi ero ripromessa di tornarci un giorno. Ma gli anni passavano velocemente e ormai non ci speravo più. Poi nel 2005 ho partecipato a Lecce a un congresso sugli ebrei di Puglia e ho visitato Santa Maria in Bagno il museo che documentava con foto e lettere le storie di quanti, con l’aiuto di organizzazioni sioniste, erano riusciti a scampare ai lager nazisti e rifugiarsi a Nardò. Ho sentito subito che era una storia molto simile alla mia e i ricordi che pensavo svaniti dentro di me, sono ricomparsi all’improvviso, come un’immensa ondata. Con un groppo alla gola e gli occhi pieni di lacrime, ho chiesto alla responsabile del museo se aveva mai sentito parlare di un campo profughi a Brindisi. Ricordavo il nome: Bocca di Puglia. Dopo alcune ricerche, ho avuto un’indicazione. Mi sono rivolta alla Capitaneria di porto di Brindisi ed è così che ho scoperto che il mio campo profughi esisteva ancora.
Dev’essere stata una grande emozione.
Quando sono arrivata lì il cuore mi batteva forte e avevo mani e piedi ghiacciati nonostante fossimo in luglio. Alla vista dell’ingresso, con i vecchi cancelli tutti arrugginiti, gli occhi mi si sono riempiti di lacrime ed ho tremato. Avevo paura di non farcela a ripercorrere il mio passato e a rivedere i luoghi che ricordavo da bambina.
La vera sorpresa però è arrivata al termine della visita.
Sì, quando mi dissero che per quel luogo era in programma una ristrutturazione per adibirlo a centro turistico. Quando l’ho saputo sono rimasta male e ho pensato “Vogliono cancellare un pezzo di storia”. Così una volta tornata a Bologna ho scritto al sindaco di Brindisi raccontandogli la storia della mia famiglia e chiedendogli di salvare almeno una piccola parte di quel luogo a memoria di quanto era accaduto.
Qualche mese più tardi moriva sua madre e lei iniziava a scrivere il tuo libro.
Sentivo di dover trasmettere ai miei figli la storia della mia famiglia, prima che questa spinta sparisse. Dovevo farlo subito e senza interruzioni, anche per interpretare il comandamento “onora tuo padre e tua madre. Credo di aver elaborato così il mio lutto.
A quel punto, nell’ottobre del 2006, arriva una lettera da Brindisi.
Il sindaco con l’assessore regionale alla Cultura avevano deciso di organizzare una manifestazione il 29 novembre per ricordare i 50 anni del nostro arrivo dall’Egitto con la nave Achyllèos e l’accoglienza nel campo profughi di “Bocca di Puglia” a Brindisi e mi invitavano a essere presente. Ho avuto così l’onore di prendere parte alla celebrazione in cui è stata diffusa la prima edizione del mio libro a cura della Regione ed è stato apposto un bassorilievo nel porto vicino al campo profughi alla presenza di tante rappresentanti delle istituzioni locali e regionali e del mondo ebraico.
Una bella soddisfazione.
Mai avrei potuto pensare che un giorno sarei stata ricevuta ufficialmente per lasciare una testimonianza della nostra cacciata dall’Egitto vicino a quello che è stato il mio primo approdo in Italia. Ma soprattutto mai avrei immaginato l’interesse e l’affetto che hanno accolto questo libro con cui ho voluto esprimere il mio amore e la mia riconoscenza ai miei genitori, a mio fratello, ed a tutto il resto della mia famiglia, per il bene che mi hanno voluto e per tutto quello che ho imparato, vivendo con loro.

Daniela Gross