waiqrà/Afganistan

Abbiamo iniziato questo sabato la lettura del terzo libro della Torà, il Levitico, Waiqrà in ebraico, dalla prima parola del testo. Proprio il modo in cui questa parola è scritta ha destato la curiosità dei commentatori. Perché la lettera alef finale di waiqrà compare nei rotoli manoscritti in un corpo più piccolo. Mistero da decodificare, con molte soluzioni. Partendo dal presupposto che l’espressione waiqrà el Moshè, “[il Signore] chiamò Moshè” indichi una rivelazione divina continua e un atto di particolare predilezione nei confronti di Moshè, le spiegazioni prevalenti si concentrano sul senso della chiamata e della rivelazione; per alcuni l’alef (prima lettera dell’alfabeto, dal valore numerico uguale ad uno) rappresenta l’essenza divina che rivelandosi e comunicando con gli uomini necessariamente si riduce; per altri è Moshè che scrivendo di suo pugno la Torà si dichiara non degno di tanta attenzione e modestamente cerca di ridurre l’impatto di tanta attenzione nei suoi confronti. Ma un geniale commentatore italiano, Shemuel David Luzzatto, riduce tutto quanto a una semplice spiegazione grafica: essendoci due lettere uguali affiancate, la alef di waiqrà e la alef di el, una prima scrittura stenografica ha sostituito con un segno grafico o eliminato la prima alef, per rimetterla in secondo momento in uno spazio ormai ridotto in piccole dimensioni. Abbiamo la spiegazione semplice e razionale davanti ai voli dell’esegesi morale e mistica. Chi ha ragione? Qualcuno, tutti o nessuno? Una cosa è certa, che si può volare, ma partendo con i piedi per terra.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Ricordate le foto delle ragazzine afgane che tornavano a scuola sorridenti nel 2002, dopo la prima fase della guerra in Afganistan, quando i talebani sembravano sconfitti? Ricordo la gioia di quelle immagini, ricordo di averle mostrate alle mie nipotine per far loro capire che andare a scuola poteva essere una libertà grandissima. Sette anni dopo, si succedono le notizie di donne sfregiate con l’acido perché osano andare a lavorare, di bambine assassinate mentre vanno a scuola. L’idea di una sia pur minima uguaglianza fra i sessi è annegata nella violenza più selvaggia. E noi ci facciamo di nuovo poco caso. Come si può discutere, stringere patti, fare contratti economici con chi tiene in catene le sue mogli e le sue figlie? La condizione delle donne nei paesi islamici non appartiene al campo delle usanze, delle differenze culturali, ma a quello dei diritti umani essenziali. La tragedia della guerra che alcuni paesi islamici conducono contro le loro figlie è un problema di tutti noi.

Anna Foa, storica