Il senso dell’esilio e la patria portatile del popolo ebraico

L’esilio sembra essere diventata oramai la condizione di ciascuno in un mondo dove i confini si fanno sempre più labili. Si può dire forse finita l’età sedentaria della storia. Le potenti ondate migratorie che attraversano il globo hanno un risultato evidente: il sé non coincide più con il luogo, e il luogo non coincide più con il sé.
I luoghi di nessuno e di tutti sono quei deserti del transito, come aeroporti, villaggi turistici, asili notturni, alberghi la cui esistenza non dipende più da un sé radicato. Dall’altra parte si profila con sempre maggiore chiarezza un sé che non si sente più a casa in un solo luogo, e che, proprio perché può abitare in molti luoghi, non si sente più a casa da nessuna parte del mondo.
I filosofi che esplorano la globalizzazione e riflettono sulla condizione umana nel tempo dell’esilio potrebbero imparare molto da un precedente fondamentale nella storia: quello del popolo ebraico la cui “patria portatile” – secondo la famosa espressione di Heinrich Heine – è un Libro. L’esilio ebraico è stato per secoli una provocazione perché ha tenuto sotto gli occhi dei popoli l’apparente paradosso e l’effettivo scandalo di un sé che poteva esistere senza luogo.

Donatella Di Cesare, filosofa