Festival di Locarno, dalla Massada di Gitai ai veleni dei filmati di guerra

C’è ancora spazio per il cinema indipendente, per le produzioni concepite fuori dai confini dei grandi studiosi? E c’è ancora spazio per esprimere culture minoritarie, storie fuori dal comune, pellicole che non riempiranno mai le grandi sale? Il Festival del Film di Locarno che ha appena chiuso i battenti ha dato una risposta vivace alla crisi di idee e di risorse economiche che flagella l’industria cinematografica e alle sfide poste dalle grandi mutazioni tecnologiche.
Da un punto di vista ebraico, non sono mancati momenti significativi e occasioni stimolanti. Ma anche occasioni di riflettere come la grande macchina dello spettacolo continui a creare mostri pericolosi che forniscono una visione distorta soprattutto della situazione mediorientale.
La proiezione in Piazza Grande davanti a 10 mila persone di Unter Bauern Retter in der Nacht dell’ebreo olandese Ludi Boeken, che racconta la storia di Marga Spiegel, ebrea sopravvissuta alla Shoah grazie alla resistenza spontanea di una famiglia contadina della Westfalia. Marga 97 anni e Anni Richter, la sua amica del cuore, di poco più giovane e protagonista di un libro di memorie firmato dalla Spiegel che ha fatto epoca, sono salite sul palco del Festival per regalare all’immensa sala a cielo aperto un’emozione tutta particolare.
Un piccolo dono prezioso, che testimonia, se ci fosse ancora bisogno di conferme, della vitalità del nuovo cinema israeliano, è venuto dallo “Siyur Mudrach” del ventottenne Benjamin Freidenberg, prodotto dalla celebre Sam Spiegel Film & TV School di Gerusalemme e interpretato da Shir Shenar, Isaac Shwartz, Assia Vilenkin, Alfred Roitberg, Benjamin Abraham e Billal Awawi.
Poche sequenze per raccontare di Eitan, che vive solo a Gerusalemme. Il suo lavoro consiste nel tracciare linee bianche sulle strade della città. Tra immaginazione e realtà, l’uomo cerca di rompere gli schemi del suo isolamento.
Ma a testimoniare di una cinematografia aspra, difficile, talvolta geniale, altre volte difficilmente digeribile, ha pensato l’enfant terribile del cinema israeliano, Amos Gitai (nell’immagine a fianco), che l’anno dopo aver ricevuto un Pardo d’onore sulla piazza nella passata edizione, è tornato portando il suo lavoro più difficile: una riduzione filmata della versione teatrale della “Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre” tratto dai testi dello storico romano Flavio Giuseppe e andato in scena al Festival teatrale di Avignone solo pochi giorni prima.
Spettacolo impossibile e insostenibile (ovviamente siamo a Massada, con tutte le ammonizioni e le allusioni di un provocatore di professione e di un artista dalla genialità farneticante che ci possiamo attendere). Ma tutto sommato anche in questo caso appuntamento importante per comprendere quello che la cultura degli israeliani proietta verso l’esterno e che il mondo esterno vuole raccogliere. Ad Avignone lo hanno definito un oratorio polifonico di lingue e di destini. Proiettato sullo schermo rischia forse di perdere un poco della grandiosità della tragedia greca che Gitai ha voluto mettere sotto i riflettori sul palcoscenico. Ma se il titanismo dello spettacolo caleidoscopio, dove tutte le lingue, tutte le arti, tutti i destini di tutti i popoli che hanno fatto le civiltà del Mediterraneo sono costretti al confronto e al conflitto, resta in ogni caso una preziosa testimonianza di un’intelligenza scomoda e fuori dal comune.
Note dolenti, che sarebbe un grande errore ignorare con sufficienza, invece, sul lavoro di un altro premiato, il documentario televisivo di Stefano Savona dedicato all’operazione militare su Gaza dello scorso gennaio e intitolato “Piombo fuso”. Il filmato (realizzato in collaborazione con il corrispondente di Repubblica Guido Rampoldi), che sarà trasmesso dalla terza rete della Rai a breve, è stato realizzato sulla base di materiale girato all’interno d Gaza nei pochi giorni delle operazioni mirate a fermare il continuo lancio di razzi sulla popolazione civile israeliana.
Savona, che non è nuovo a imprese del genere, è riuscito a penetrare nella Striscia mentre molti altri reporter sono stati tenuti a distanza per motivi di sicurezza. Le sue immagini, apparentemente imparziali, ma ovviamente (e come poteva essere altrimenti) dolorose, suggestive e suggestionanti, si susseguono senza commenti. Chi ha una conoscenza anche solo parziale della situazione reale, chi ha preso visione delle migliaia di missili criminalmente lanciati per anni e anni contro la popolazione civile israeliana dai terroristi palestinesi (che nessuno ovviamente si è preso la briga di filmare), potrà forse trarvi qualche motivo di ulteriore conoscenza. Ma il grande pubblico non farà altro che cercare appigli e conferme alle ricette pronte e ai pregiudizi, a una ripartizione di fantasia dei torti e delle ragioni. Quando lo spettacolo pretende di fare informazione e di distribuire giudizi riesce solo, purtroppo, a manipolare rozzamente le emozioni.
Certo, solo una pellicola sulle oltre 300 in programma al Festival, ma non a caso una delle premiate. E non a caso una delle più amate da certa stampa italiana, che va continuamente a caccia di pezze d’appoggio per puntellare vecchie tesi precostituite.
Il Festival di Locarno, intanto, si è concluso con la vittoria della regista e scrittrice Xiaolu Guo, Pardo d’oro 2009 per She, A Chinese. La sessantaduesima edizione ha risentito della difficile congiuntura economica degli ultimi mesi, anche se le ripercussioni sono state minori del previsto. Le presenze sono diminuite del 12,7% (con un totale di oltre 157 mila spettatori). Un segnale ancora per confermare che il cinema indipendente, i film prodotti dalle piccole realtà, dalle etnie e dalla culture minoritarie, sono importanti per comprendere come si muove il mercato culturale globale, ma anche come evolvono i gusti del pubblico e di coloro che alla creazione dedicano le loro energie.

Guido Vitale