Qui Roma – Pacifico Di Consiglio, il ricordo di un eroe del Ghetto

Posti in piedi nel cortile del Palazzo della Cultura, al Portico d’Ottavia, per assistere alla presentazione de Il Ribelle del ghetto libro che racconta la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto, a cura del giornalista e scrittore Maurizio Molinari e del figlio Alberto di Consiglio.
A fianco al maxischermo, su cui son stati proiettati cinque spezzoni dell’intervista rilasciata da Moretto alla Shoah Fondation nel 1998, due bandiere di Israele, così care al protagonista del video, tanto da desiderare che una bandiera israeliana fosse sepolta insieme a lui.
Un eroe e un punto di riferimento per tanti Moretto perché anche negli anni cupi della guerra e delle leggi razziste, non ha rinunciato a tener la testa alta, a combattere per la propria identità con orgoglio, non sottostando ai soprusi. Scelse invece, già negli anni Trenta, di dedicarsi alla boxe per esser in grado di rispondere alle offese, colpo su colpo, come fece con il fascista che gli chiedeva l’umiliazione del saluto a mano a via Arenula.
Come ha detto lo storico Marcello Pezzetti, Moretto è stato il simbolo di una resistenza ebraica particolare, tipica di una prima fase del conflitto, quando ancora non erano chiari i programmi di sterminio nazisti. Lo storico l’ha definita resistenza “civile”, di autodifesa, legata prima di tutto al desiderio di evitare l’umiliazione e i soprusi.
Secondo il capo rabbino di Roma, rav Riccardo Di Segni, questa scelta è soltanto apparentemente anticonformista perché si inserisce in uno schema di comportamento ebraico tradizionale che vede i suoi simboli nella figura di Giosuè e della rivolta dei Maccabei ed è improntato alla difesa della propria identità e alla reazione fisica.
Nei video proiettati Moretto racconta gli ultimi anni della guerra quando, salvatosi dal rastrellamento e dalla deportazione del 16 ottobre del 1943, torna a Roma e cerca di contattare la Resistenza iscrivendosi nel Partito d’Azione.
Sono vicende avventurose, arrestato, riesce a evadere dalla caserma PAI in Piazza Farnese gettandosi dalla finestra. Denunciato e tradito quando cerca di contattare la Resistenza, viene invece recluso a Regina Coeli in attesa della deportazione, che evita gettandosi dal camion in corsa.
Inizia quindi una seconda fase, in cui Moretto, come sottolineato da Marcello Pezzetti è cosciente di combattere non solo per la propria dignità ma per la sua vita, una nuova forma di resistenza ebraica proporzionata al pericolo, purtroppo dovendosi difendere non soltanto dai nazisti ma anche da chi collaborò con loro denunciando gli ebrei, magari soltanto per denaro. E purtroppo furono circa 2 mila gli arresti avvenuti per la denuncia di delatori.
L’ultimo spezzone di video ha raccontato invece una vicenda successiva, gli anni che seguono la Seconda Guerra Mondiale, quando in “piazza” iniziano le scorribande di gruppi fascisti, che non soltanto non si vergognano per il contegno tenuto nel corso della guerra ma cercano vendetta. Sarebbe infatti ingenuo pensare che decenni di educazione all’odio razziale potessero esser cancellati dall’arrivo e dalla liberazione da parte degli Alleati.
Fu allora necessario organizzare un gruppo di autodifesa ebraico, composto da volontari, e Moretto ne fu la mente, con la sua capacità organizzativa e capacità naturale di leadership che aveva conquistato sul campo.
Proprio di questi anni ha parlato Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e grande amico di Moretto, che insieme a lui organizzò agli inizi degli anni 70 i turni di sorveglianza per le scuole, il tempio e le istituzioni ebraiche per evitare che potessero esser colpite o danneggiate.
Gattegna ha ricordato non soltanto l’umiltà dell’uomo, ma anche la sua capacità naturale di leader, affermando: “Ciò che i consigli comunitari decidevano sulla carta lui sapeva realizzarlo sul campo, sapeva comprendere la portata e gli effetti di ciò che faceva”.
Ma soprattutto ha ricordato il suo lavoro di coesione all’interno della Comunità per superare le divisioni, anche sociali interne, lavoro che fu tanto importante quando si trattò di accogliere gli ebrei che arrivavano dalla Libia.
Riccardo Pacifici nel ringraziare e salutare Bice Migliau che con questo evento conclude la sua esperienza lavorativa nel Centro di Cultura Ebraica da lei fondato e diretto per quaranta anni, si è interrogato sulla differenza fra il passato e il presente, sulla maggiore reattività delle Istituzioni nella difesa della Comunità, certamente positiva, ma che rischia di fare considerare acquisite certe conquiste alle nuove generazioni che non devono lottare per esse. Per questo nel libro proprio Riccardo Pacifici ricorda che quando lo andarono a trovare, oramai negli ultimi giorni della sua vita, Moretto gli lasciò un insegnamento “continuate a fare bavelle (a protestare)”, ed era un invito a non dare per scontate le conquiste ottenute, a combattere sempre, come lui aveva fatto nel corso della sua vita.

Daniele Ascarelli