Memoria 2 – Giorgio Perlasca, italiano scomodo

Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo di Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein edito da Chiarelettere e da oggi in libreria, così come il suo sottotitolo, è un “libro scomodo” che si legge con foga e con rabbia. Perché non è solo la storia del coraggio che hanno avuto in pochi, ma è soprattutto la riflessione su una vicenda dopo, a guerra conclusa, che è più istruttiva e di quella del gesto eroico o dell’atto esemplare compito in tempo reale durante la guerra.
Ma andiamo con ordine. Il libro è una biografia di Giorgio Perlasca (1910 -1992), l’uomo che si inventa un incarico, un’organizzazione con una struttura operativa di fortuna, salva migliaia di persone nell’inverno 1944-1945 a Budapest nelle ultime settimane del dominio delle “Croci frecciate” i collaborazionisti nazisti che governano l’Ungheria dall’estate 1944, a differenza di altre ambasciate che avevano la stessa possibilità di quella spagnola di agire (Città del Vaticano, Svezia, Portogallo) e che pure non agirono o ebbero dei conflitti interni. Ma soprattutto Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo è una riflessione sull’“ingratitudine”.
Nato nel 1910, giovane entusiasta fascista, volontario dalla parte di Franco nella guerra civile spagnola (1936-1939), Giorgio Perlasca al momento dello scoppio della guerra impegnato in un’azienda di importazioni e di vendita di carni, il cui utilizzatore finale in gran parte è l’esercito, inizia un lento percorso di allontanamento dagli eccessi e si trova a partire dal 1941 sempre più in rotta di collisione con l’alleato tedesco in tutti gli scenari in cui si trova ad operare.
E’ una vicenda che impiega tempo a maturare mentre lungo le molte strade d’Europa il suo girovagare per lavoro lo mette vicino ad altri uomini e donne in movimento da Ovest verso Est. Nell’estate 1943 avviene la prima svolta sostanziale. Crolla il governo Mussolini, l’Italia prova ad uscire dall’alleanza col nazismo e Perlasca senza rinnegare niente del suo passato fa la scelta di lealtà verso la monarchia. In quel momento si trova a Budapest e vi rimarrà fino a guerra conclusa. In quei 18 mesi la sua situazione si fa sempre più precaria e in quanto italiano non schierato con Salò in un Paese in cui i fascisti locali prendono sempre più potere i rischi per la sua incolumità aumentano. Poi nell’estate 1944 la situazione precipita e il movimento delle “Croci frecciate” prende il potere per stroncare sul nascere l’iniziativa del governo collaborazionista ungherese favorevole all’abbandono dell’alleanza con la Germania nazista. Inizia così l’ultima fase dell’occupazione nazista dell’Ungheria e i quattro mesi da fine agosto 1944 fino al 17 gennaio 1945 quando Pest cade in mano ai russi sono una lotta per impedire che ciò che resta del mondo ebraico ungherese sia trasportato ad Auschwitz. Nell’inverno del ‘ 44, addetto commerciale all’ambasciata italiana a Budapest dove si era rifugiato in seguito al rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò, Perlasca si trasforma in eroe. Con la città occupata, e i diplomatici in fuga, si “insedia” all’ambasciata di Spagna fingendosi rappresentante del governo di Madrid. In questa “veste” firma 5200 lasciapassare ad altrettanti ebrei, spacciandoli per cittadini spagnoli, che gli uomini delle SS avevano già deciso di trasferire in Germania.
In quella vicenda Perlasca gioca tutte le sue carte ed è l’uomo che attraverso il falso, e in forza della falsa copertura che gli fornisce l’addetto dell’ambasciata spagnola riesce a mettere in salvo o sottrarre dalla morte migliaia di ebrei ungheresi ma anche di non ebrei (tra loro comunisti, democratici, anarchici..).
Fin qui la vicenda che raccontano Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein in parte era stata già ricostruita da Enrico Deaglio nel suo La banalità del Bene (Feltrinelli 1991) e poi trasposta nella riduzione cinematografica nel 2002 da Alberto Negrin. Ma essi ampliano l’indagine soprattutto al periodo successivo al gennaio 1945 e dunque riprendono il filo del ragionamento non considerando solo ciò che accadde a Budapest, ma ponendo la domanda intorno al fatto che quella vicenda non divenne pubblica, che nessuno in Italia dopo ne parlò. E ciò apparentemente in maniera sorprendente perché Perlasca poteva essere l’icona del “bravo italiano” che tutti, o almeno tanti cercavano di dimostrare di essere stati. Solo che era “esageratamente bravo” e dunque quella sua dimensione eccessiva anziché contribuire a emendare tutti, risultava alla fine imbarazzante per tutti. Il fatto sostanziale tuttavia non è solo che Perlasca ha rappresentato un’eccezione, ma anche che dopo, a guerra finita la sua vicenda ha impiegato molto tempo a divenire pubblica e ad essere nota. Perché si chiedono Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein?
Si potrebbe dire molte cose. Perlasca nel secondo dopoguerra non ha mai rinnegato il suo passato fascista, non ha mai taciuto la sua partecipazione alla guerra civile spagnola dalla parte di Franco, non ha mai negato sostanzialmente la sua convinzione politica non solo di allora, ma ha anche confermato in gran parte di crederci ancora. In breve quella vita e quella storia non erano l’effetto di una dimissione dal proprio passato, ma si presentavano come in continuità con esso.
Non solo. Perlasca provò a raccontare la sua storia. La raccontò e la scrisse al rappresentante del governo spagnolo, la scrisse a De Gasperi, allora Primo ministro, ma il risultato fu il silenzio. Perché?
Per gli spagnoli era un italiano che aveva svolto un compito non rivendicabile dalla Spagna e nemmeno rivendicabile da quell’addetto che pure all’inizio lo aveva aiutato per poi scomparire nel momento più drammatico. Per il governo italiano era comunque imbarazzate scoprire che fare qualcosa era possibile, che sarebbe stato necessario organizzarsi oppure ingegnarsi, comunque che la macchina della distruzione non era invincibile, che aveva punti di debolezza e che non era necessaria neppure una struttura operativa colossale.
Il risultato è che la vera continuità fu rappresentata dall’indifferenza – quella di allora che preferì non agire e quella di dopo che preferì “insabbiare”. Fino alla fine degli anni ’80, quando la storia di Perlasca cominciò a girare. Ma anche allora accolta da molti con imbarazzo: a sinistra perché quel passato fascista faceva da schermo alla convinzione che solo rinnegandolo si poteva agire per fermare lo sterminio; a destra perché la nostalgia di Salò non consentiva poi di dare spazio a quella scelta in solitudine; da parte della Chiesa perché quella scelta dimostrava che molto sarebbe stato possibile fare, ma che anche a Budapest il Vaticano fu silente e reticente.
Un atteggiamento imbarazzato che non si risolve nemmeno con al morte di Perlasca. Ai suoi funerali in Chiesa interviene il rabbino di Padova di allora, gli ambasciatori di Spagna e di Israele, l’incaricato d’affari d’Ungheria a Roma, una delegazione dei vigili urbani di Como, città natale di Perlasca, il sindaco e il Prefetto di Padova. E’ assente il governo italiano che pure gli ha conferito una medaglia, ma invitandolo a Roma al Quirinale, Presidente Francesco Cossiga, ma non pagandogli nemmeno il biglietto ferroviario di seconda classe per poterla ritirare. Invia un telegramma Giovanni Spadolini, Presidente del Senato e Oscar Luigi Scalfaro in quel momento Presidente della Repubblica. Nessuna gerarchia della Chiesa, incluso il Vescovo di Padova, che pure è presente ad ogni cerimonia pubblica e o non manca mai di inviare il suo messaggio, si fa vivo in quell’occasione. A suo modo quella scena che si svolge il 18 agosto 1992 nella chiesa di Sant’Alberto Magno, a Padova è la sintesi di una storia, ma anche la radiografia dell’imbarazzo che ha accompagnato tutta la vicenda. Una storia che si fonda sul carattere di un uomo in cui si congiungono franchezza, schiettezza e rifiuto di piegarsi ai potenti. “Parole – concludono Carlotta Zavattiero e Dalbert Hallenstein – apprezzate da tutti – destra, sinistra, Vaticano – ma che furono di fatto la sua rovina”.

David Bidussa