Avraham Sutzkever e la catena d’oro

Avraham Sutzkever, il poeta di lingua yiddish morto il 20 Gennaio all’età di 96 anni, ha vissuto le tragedie e le glorie della moderna cultura ebraica dell’Europa Centro-Orientale. Cominciò la sua attività come parte del movimento letterario “Giovane Vilnius” e nel Ghetto della sua città fondeva i caratteri da stampa di piombo per farne proiettili, da Vilnius aiutò a salvare alcuni tesori di cultura ebraica, compresi i suoi stessi manoscritti. Sua madre e il suo giovane figlio morirono nella Shoah. Dopo la guerra partecipò come testimone al processo Norimberga e successivamente – già divenuto poeta rinomato in tutto il mondo – giunse in Israele, dove fu al centro della comunità letteraria yiddish e dove fondò e diresse il grande giornale letterario yiddish, Di Goldene Keyt, fino all’ultimo numero nel 1995.
Ma se ci soffermassimo solamente sui dettagli biografici correremmo il rischio di lasciarci sfuggire l’importanza della sua opera, che certamente deve molto all’epica esistenza di Sutzkever ma che è anche indipendente da essa.
L’opera di Sutzkever andava oltre i confini delle scuole o delle ideologie, arricchendosi, allo stesso tempo, da molte di queste. Come Marc Chagall, era un virtuoso del violino, della rosa, della colomba e della pioggia, che nelle sue mani non erano clichés ma diventavano possibilità inesauribili. Persino quando la fonte vitale della cultura yiddish si esaurì quasi del tutto, Sutzkever trovò nuove intensità nel suo lavoro, come se seguisse una propria mappa alla ricerca di significati nascosti.
Certamente, un ebreo che volesse cercare una guida nella letteratura in quest’epoca divisa trarrebbe beneficio dall’opera di Sutzkever, un uomo nato nella storia ma che non ne è stato piegato. Mentre molti oggi sono concentrati in particolari tipi di spazi e tempi ebraici – Israele, la Sinagoga, lo Shabbath – Sutzkever ha costruito e abitato i propri reami, che ha sviluppato secondo le loro leggi extra-storiche. Quando Sutzkever scrisse di quando fondeva i piatti di metallo nella tipografia rom per farne proiettili da dare ai partigiani paragonò la sua fonderia con il tempio dove gli anziani ebrei versavano l’olio per la menorah. La parola usata – templ – è piuttosto rara in yiddish, al contrario del più familiare termine ebraico beys-hamikdesh. Ma l’uso di quella parola cambiò. La volta successiva in cui usò templ, nella lunga poesia del 1955 “Ode alla Colomba”, non si riferiva più al Tempio di Gerusalemme, ma alla sua struttura personale: Boyen un boyen dem templ, mit zunikn seykhl im boyen! Costruire e costruire il tempio, costruirlo con un pensiero solare!
Come ogni altro scrittore yiddish, fu costretto a trovare una nuova vita alla propria opera dopo lo sterminio di massa della Shoah. Ma mentre altri scrittori perseverarono trattando del mondo perduto – che a molti costò la stasi artistica – Sutzkever costruì nuovi mondi nell’espressione lirica di se stesso. È vero, scrisse della vita del ghetto e del periodo passato a nascondersi mentre i nazisti imperversavano, ma quelli erano i suoi lavori al tempo dell’Olocausto, non indicazioni o prove di uno stile immutabile. I momenti storici furono per lui il materiale grezzo per le sue visioni poetiche, non scuse per versi occasionali.
L’abitudine di vivere il mondo storicamente ma separarsi da esso poeticamente venne presto. La Vilnius della sua giovinezza – come il resto del mondo ebraico dell’Europa Orientale – era lacerata dalle rivalità politiche. Molti poeti o si ritiravano in un irritante e ostile modernismo oppure stavano sui bastioni dei propri castelli politici, lanciando la propria poesia ai loro oppositori. Sutzkever si avvicinò al modernismo senza mai farne davvero parte. Fin dalle sue primissime poesie, vide se stesso come un poeta-profeta la cui missione era quella di scrivere la storia nascosta della terra.
Questa sua poesia profetica non è facile da interpretare. È piena di parole difficili da comprendere persino a una persona che parla yiddish fluentemente. Scrive uno yiddish iperletterario che nessuno usa più e che eleva i pochi che l’hanno fatto. Le sue conclusioni non sono chiare e le immagini sono raramente sentimentali e confortanti. Questo, sfortunatamente, rende ancora più difficile la possibilità che qualcuno legga le sue poesie oggi. Per dirla con le parole di Sutzkever: “Chi sarà rimasto?”.
L’esperienza personale di Sutzkever dopo la guerra fu in Israele, che decise di farne la propria casa; era un sionista impegnato, dell’ala socialista (il suo giornale era finanziato dallo Histadrut). Ma nonostante abbia ricevuto il Premio Israele nel 1985 non ebbe mai la gloria che si meritava. Israele si accorse troppo tardi della lingua e della cultura la cui scomparsa era dovuta, in parte, ai sentimenti anti-yiddish che la giovane nazione ha attivamente fomentato. Inoltre Sutzkever non fu mai molto letto né apprezzato dagli ebrei americani, che ignoravano l’alta cultura letteraria yiddish.
Tuttavia, con le fiamme della Shoah alle sue spalle e la faccia rivolta al nuovo Israele, Sutzkever ebbe la sua visione poetica, formata in un tempio dell’intelletto che solo un poeta avrebbe potuto costruire. Shelley disse che i poeti sono gli sconosciuti legislatori della razza umana. Avrom Sutzkever era un profeta poetico troppo poco considerato al suo tempo. Forse, anche se tardi, ciò potrà cambiare.

Zackary Sholem Berger -Tablet magazine
(versione italiana di Pablo Chiesa)