Davar Acher – Dopo questo sinodo, cosa abbiamo da dirci?

Il mondo ebraico e in particolare l’ebraismo italiano deve fare molta attenzione a quel che è accaduto nel sinodo dei vescovi del Medio Oriente che si conclude oggi. Nel corso dei lavori è riemerso spesso un linguaggio violentemente antiebraico. Si è parlato dell’insediamento ebraico in Eretz Israel come di un “corpo estraneo” “non assimilabile” che “corrode”, un'”ingiustizia”, cioè un “peccato”, della “resistenza” (armata, si capisce dal contesto e dunque del terrorismo) come di un “dovere”. C’è chi ha negato ogni rapporto del popolo ebraico con la regione “prima di settant’anni fa” (“cosa fanno qui?”). Si è usata talvolta una terminologia che non può non evocare a orecchie sensibili l’antisemitismo nazista (anche Hitler e Mussolini, oltre ad Ahmadinejad hanno parlato degli ebrei come un “corpo estraneo”), a tratti i suoi precedenti cristiani e in particolari cattolici (il “peccato” originale della nascita di uno stato ebraico). Un documento presentato al sinodo ha addirittura spiegato, con la tipica contorsione del ragionamento inquisitoriale, che la “resistenza” contro Israele è per il bene degli ebrei, dato che solo con la forza essi si possono distogliere dall'”ingiustizia”. I due soli interventi (dei vescovi di Cipro occupata dai Turchi e del Libano ormai dominato dagli sciiti) che hanno indicato nell’islamismo il nemico che si propone di eliminare il cristianesimo dal Medio Oriente, non sono stati ascoltati e anzi hanno suscitato subito smentite e scuse al mondo islamico ingiustamente diffamato.
I documenti ufficiali hanno naturalmente dato maggiore compostezza alla posizione del Vaticano rispetto alle punte estreme dei discorsi dei delegati, richiamando il valore del dialogo religioso e aggiungendo molte buone intenzioni. Ma in sostanza hanno ufficializzato la scelta della Chiesa di schierarsi contro Israele, che del resto era già emersa in diverse altre occasioni, come per esempio la conferenza Durban 2 a Ginevra, l’anno scorso, aggiungendo un estremismo propagandistico inconsueto per la felpata diplomazia vatcana. Nel documento finale, per esempio, non si chiede più a Israele di ritirarsi dai “territori occupati”, ma si chiede perentoriamente che sia l’Onu a far tornare Israele nei confini del ’49, il che implicherebbe, se non un’azione militare, almeno una durissima pressione diplomatica e l’isolamento internazionale dello Stato ebraico. Non si parla più di spartizione di Gerusalemme ma, rilanciando una vecchia utopia vaticana, di una sua internazionalizzazione, cioè sottrazione integrale alla sovranità israeliana e “gestione paritetica” da parte delle tre religioni (non degli stati dell’area), che concretamente vorrebbe dire una specie di Onu delle religioni a facile predominio cattolico.
Bisogna notare che quella del sinodo è una presa di posizione ufficiale al massimo livello, approvata sotto la diretta responsabilità del Papa in un’occasione attentamente costruita e sapientemente propagandata. Non bisogna sottovalutare il senso di questa ostentata campagna propagandistica antisraeliana. Il Vaticano sembra aver deciso di proporsi ufficialmente al mondo islamico come un possibile alleato contro Israele, marcando anche un forte distacco dall’Occidente (quella in Iraq è stata definita nel documento finale “guerra assassina”).
A noi l’alleanza con i nemici storici del cristianesimo e gli attuali oppressori e assassini di cristiani sembra una chiarissima sciocchezza, ma la Santa Sede ha le sue logiche, ragiona sul suo interesse a lungo termine. Forse crede di alleviare la posizione dei cristiani ostaggi degli islamisti (ma può illudersi così grossolanamente?). Oppure dà per scontata la vittoria dell’islamismo in Europa e si prepara per tempo a una posizione di assedio, come quella del patriarcato di Costantinopoli, tentando di ingraziarsi il nuovo padrone.
In ogni caso bisogna far credito al Vaticano di determinazione e capacità di perseguire politiche a lungo raggio, non certo di infallibilità e neppure di moralità. La scelta di questi giorni può essere accostata a quella di non opporsi frontalmente al nazismo, come invece la Chiesa fece col comunismo. Bisogna dunque che l’ebraismo e in particolare quello italiano si riabitui all’idea di un Vaticano schierato strategicamente contro Israele, sia pur sotto lo schermo ipocrita del dialogo interreligioso. In fondo non è una novità, la Santa Sede è stata buona ultima nel riconoscere Israele, l’ha fatto a pieno titolo solo nel 1994, quarantasei anni dopo la fondazione dello Stato. Ma quanti di noi avevano sperato che avesse senso tenere aperto il dialogo per favorire una posizione più equilibrata della Chiesa nei confronti del mondo ebraico, dovranno rivedere ora le loro illusioni. Si tratta di un problema molto più grave di quello già pesantissimo della santificazione di Pio XII, perché riguarda il futuro e non il giudizio sulle persecuzioni subite in passato e sulle loro complicità.
 Hanno senso, bisognerà chiedersi, le “giornate di amicizia”, i dialoghi teologici, gli inviti a visite nelle sinagoghe, le collaborazioni istituzionali e anche quelle di singoli intellettuali? Naturalmente la pace è una buona cosa e nessuno ha interesse ad aprire guerre di religione. Ma, a parte la dubbia soddisfazione di essere chiamati “fratelli maggiori” (ruolo che nella Bibbia è sempre dei malvagi), abbiamo qualcosa di sostanziale da condividere con un’organizzazione religiosa che lascia senza commenti i suoi alti prelati definire come “peccato”, di “ingiustizia”, di “corpo estraneo corrosivo” quello che per noi è il “germoglio della nostra redenzione”, come diciamo nelle funzioni? Possiamo scambiarci solidarietà o rispetto o anche solo condividere con una Chiesa dove hanno spazio colo che legittimano chi organizza attentati nei centri commerciali, nei ristoranti e sugli autobus dove si trovano i nostri fratelli, che ci vedono all’origine dei mali di mezzo mondo? Ha senso un dialogo teologico con chi dice che la Scrittura non può legittimare l’ingiustizia, intendendo con questo Israele? Non sarebbe il caso di dichiarare chiuso un dialogo che ha dato risultati così fragili? Queste sono le domande cui tutti saremo chiamati a rispondere presto; se non ora, quando le politiche decise nel sinodo si caleranno nella realtà.
 
Ugo Volli