Davar Acher – Il referendum e le paranoie

L’articolo 138 della Costituzione italiana stabilisce che se ne fanno richiesta un congruo numero di elettori, di parlamentari o di consigli regionali, ogni proposta di legge costituzionale benché approvata dal Parlamento è soggetta a referendum, salvo che sia stata approvata da due terzi dei deputati e dei senatori. Regole referendarie più o meno ampie esistono in Francia, Svezia, Svizzera, Norvegia, Danimarca, Canada Australia e molti altri paesi. Anche negli stati più attaccati al principio del monopolio parlamentare delle decisioni, la scelta popolare diretta è stata spesso richiesta per cambiamenti costituzionali importanti o modifiche della sovranità, come l’adesione o l’uscita da comunità sovranazionali, il cambiamento di forma di governo o la cessione o l’acquisto di territori. Non è il caso di discutere qui sulla bontà del principio referendario in sé, che ha avuto un suo ruolo importante antipartitocratico nella politica italiana degli ultimi decenni per opera dei radicali, ma è difficile negare che le decisioni più solenni della vita di un paese acquistano legittimità molto maggiore se sono approvate direttamente dall’elettorato e che l’istituto del referendum sia una garanzia democratica. Così è accaduto in Italia per la scelta fra monarchia e repubblica, per il divorzio e per altri casi centrali della nostra storia recente; solo i più estremisti fra i perdenti hanno cercato il pretesto della non chiarezza del quesito per contestare il risultato. Del resto, chi non ha sentito vantare la democrazia svizzera proprio per il suo frequente uso di referendum?
E però quando il parlamento israeliano ha approvato una disposizione perfettamente analoga a quella della nostra Costituzione, cioè che vadano sottoposti a referendum accordi internazionali che modifichino la sovranità del paese con la cessione di parti integranti del territorio dello Stato (come Gerusalemme e il Golan, annessi a Israele, ma non la Cisgiordania) se non sono approvati dal parlamento con una maggioranza qualificata, si è scatenata una violenta campagna di denigrazione. Si tratterebbe di una “provocazione” (un portavoce della Lega araba), di “una violazione della legalità internazionale” e di un “ostacolo alla pace” (il presidente dell’autorità palestinese Abbas), “una scusa per negare i diritti dei palestinesi” (Erkat, negoziatore capo dell’autorità palestinese) “una presa in giro della legge internazionale” (il ministro degli esteri siriano). (queste espressioni si trovano qui). La ragione evidente è che si teme che il popolo israeliano possa essere più resistente alle pressioni internazionali che si esercitano contro l’establishment, perché si immagina lo scenario di un governo “illuminato” capace di fare “dolorosi sacrifici” contro la volontà degli elettori. Lascio il lettore giudicare sul carattere democratico di tale posizione.
Ma se guardiamo ai modi di questa campagna, è difficile negare che gli argomenti addotti e le espressioni usate rientrino nell’ambito delle tre “D” (Doppio standard, Demonizzazione, Delegittimazione) proposte da Natan Sharanski come criterio per “distinguere la legittima critica di Israele dall’antisemitismo”. Rifiutare a Israele una forma di consultazione popolare (il referendum) esaltata per tutti gli altri paesi è certamente un caso di doppio standard; l’accusa di “prendere in giro” il mondo è evidentemente demonizzante, e senza dubbio chi fa leggi per violare la legalità internazionale è delegittimato, non ha diritto di parlare. Ma questo non fa meraviglia: che la propaganda palestinese e araba in generale superi spesso i limiti dell’antisemitismo non è certo una novità.
Stupisce piuttosto che questo tipo di espressione sia fatto proprio da qualche esponente del mondo ebraico, come ha fatto Tobia Zevi su queste pagine, definendo la legge “più che un ostacolo alla pace sia una truffa politica […] un ricatto inganno” e insinuando che un eventuale referendum potrebbe essere gestito con domande trappola. E’ ovvio che nel mondo ebraico si possa dichiarare il proprio dissenso su questa legge come su qualunque altra, per esempio dichiarandola inopportuna, come ha fatto Tzipi Livni alla Knesset. Ma partire dall’idea, pur sempre discutibile e populista, che “anche in Israele i cittadini sono assai più evoluti della classe politica che hanno eletto” per concluderne acrobaticamente che riservare proprio ai cittadini (e non alla classe politica) il diritto di dire l’ultima parola su temi cruciali sia “un inganno”, è forse qualcosa di peggio del generico antisionismo degli arabi e delle sinistre, è sospetto davvero “paranoico” per il sistema politico israeliano e disprezzo per il suo popolo. Ma si può dedicarsi all’educazione ebraica dei giovani e fare convegni sul principio di responsabilità a partire da posizioni del genere?

Ugo Volli