osservanza…

Circolano idee strane sugli ebrei romani, oggetto di un’ipertrofica attenzione mediatica e da qualche tempo anche caso letterario. Un noto scrittore ha spiegato che dopo lo sterminio nazista si è sviluppato un complesso di inferiorità nelle famiglie romane più religiose che le ha spinte a emulare modelli di osservanza estranei, importando “divieti da secoli scomparsi dalla nostra tradizione”: si parla delle regole alimentari, del Sabato, del Kippur, della lacerazione per il lutto. E questa “radicalizzazione” produce “nelle anime più laiche e illuministe della Comunità un moto di irrisione e insofferenza”. Bisognerebbe meglio riflettere sul semplicismo di queste analisi. Perché se è vero che a Roma (come nel resto del mondo) c’è stata una fuga in massa dall’osservanza, questo fenomeno corrisponde a un periodo storico ben preciso, la seconda metà dell’ottocento, in cui anime belle e meno belle si sono scrollate di dosso il “giudaismo tribale”. Ed è anche vero che insieme alla fuga c’è stato un distacco dalla cultura tradizionale, che ha portato alla nascita di un mito, quello di un ebraismo romano staccato dal resto del mondo ebraico dai tempi di Tito, con una sua Torah, o un suo pallido residuo, tutta speciale, chissà in cosa consistente, che per secoli non avrebbe osservato neppure il Kippur. Non c’è bisogno di essere illuminati, ma solo un po’ lucidi, per riconoscere in questa grande bufala mitica il prodotto di una singolare commistione di ignoranza e spocchia classista.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma