Ancora: “tutti coloni”?

Sulla questione se noi si debba per forza essere o meno tutti “coloni”, Ugo Volli estende grandemente la polemica. Nel trasporto dell’argomento, oltre a chiamarmi per tre volte Dalla Pergola forse non identificando bene l’interlocutore, se la prende con gli illusi, con gli arrendevoli, e coi solipsisti. Nella sua visione strategica non esiste spazio alcuno per un compromesso con la parte avversaria. Per lui il sionismo si vive solamente in Giudea e Samaria, dimenticando forse che l’obiettivo originario del sionismo era la costituzione di uno stato ebraico in Palestina nell’ambito del diritto pubblico – dunque anche con il consenso degli altri e non solo del nostro. Ho già dato pienamente atto alla tesi del professor Volli che l’attacco della politica e dei media contro i “coloni” è un modo non intelligente per de-legittimare l’intero stato d’Israele e quel popolo ebraico di cui Israele configura la dimensione della sovranità statale. La stessa parola “coloni” è un ambiguo vocabolo usato per de-umanizzare. La tesi è che se si uccide un “colono” non si uccide una persona, e quindi la cosa può passare. Per questo Volli ha messo la parola tra virgolette, e io, condividendo, ho copiato le sue virgolette. Ognuno naturalmente ha il diritto a un’opinione politica, e quella di Volli è ben rappresentata alla Knesset, anche se da una minoranza dei deputati. Certo, a chi proprio vuole fare politica attiva suggerirei questo: venga a vivere con noi in Israele, prenda la cittadinanza, voti alle prossime elezioni, vada a stare in un insediamento di sua libera scelta – magari a Itamar. E cominci a metabolizzare un poco di quotidiana sociologia spicciola di Israele che vale molto di più di tanta alta filosofia e strategia politica. Se così facesse, Volli apprenderebbe che fra i “coloni” un ebreo vicino al movimento Reform non sarebbe accolto con lanci di riso e fiori. Poi scoprirebbe che lo stato d’Israele – lasciando da parte i modi e i tempi della fondazione dell’insediamento Itamar – considera una parte degli insediamenti “illegali” – dunque in flagrante violazione della legge israeliana. Ma quando le forze dell’ordine vanno a distruggere quelle costruzioni abusive, vengono accolte da grida di “nazisti”, ricoperte di sputi e sacchetti di spazzatura. E appena i soldati di Zahal lasciano il luogo, le costruzioni abusive vengono immediatamente ricostruite. Quando poi gli stessi soldati ammoniscono gli abitanti locali che la rete di recinzione è stata forzata o addirittura non esiste, la risposta è: a noi non serve il filo spinato, la nostra protezione viene da ben altra Fonte. Fra l’altro chi paga le costruzioni legalmente costituite e anche una parte di quelle abusive? Il contribuente israeliano, direttamente attraverso il bilancio pubblico, e indirettamente mediante finanziamenti ad associazioni e movimenti; e in parte mecenati stranieri col tacito consenso delle autorità locali e statali. L’alloggio in Giuda e Samaria viene dunque ampiamente sussidiato da denaro pubblico e privato ed è quindi molto meno costoso che a Tel Aviv o a Petah Tiqva. In proposito, abbiamo una serie di sondaggi di opinione su cosa farebbero i 300.000 abitanti ebrei della Giudea e della Samaria se un giorno venisse l’ordine governativo di sgomberare il territorio. I risultati sono interessanti. La maggioranza assoluta se ne andrebbero con dignità, salvo esigere un indennizzo per la proprietà perduta. Un’altra parte significativa opporrebbe resistenza accanita, anche fisica, ma alla fine si lascerebbe portare via, come abbiamo visto nelle epiche scene dello sgombero del Gush Katif nella zona di Gaza. E uno 0,5 per cento (ossia 1.500 delle 300.000 persone in causa) non esiterebbero a usare le armi contro l’esercito israeliano. Dica ora Ugo Volli con quale di queste tre posizioni si identifica maggiormente, e se noi si debba essere, senza spazio per eccezione o attenuante alcuna, purtuttavia “TUTTI COLONI”.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme