Sentirsi a casa nelle stanze del potere

“Com’è andata questa settimana?” mi chiede mia madre dall’altra parte del telefono, a tremila chilometri di distanza. Siamo nel 1986 e sto trascorrendo alcuni mesi in un kibbutz. “Bene, siamo andati a Gerusalemme per incontrare il Presidente”.
“Quale presidente?”
“Il Presidente della Repubblica” rispondo con tono quasi spazientito: di che altro presidente avrei dovuto parlare? Poi, posata la cornetta, mi fermo a riflettere: in Italia sarebbe possibile che un gruppetto di diciannovenni vada a casa del Presidente della Repubblica, gironzoli per il parlamento e, dopo una chiacchierata con un deputato, si insedi per una mezz’oretta nel suo ufficio senza di lui? Probabilmente no. Forse è normale sentire le istituzioni più vicine in un paese abbastanza piccolo, dove i rapporti tra le persone sono più informali e si fa di tutto perché i giovani che arrivano dalla diaspora si sentano a casa loro; eppure ho l’impressione che si tratti di una specificità positiva di Israele, poco evidenziata anche all’interno del mondo ebraico. Chissà se ancora oggi è così; chissà se questa vicinanza alla politica può essere sentita da tutti gli israeliani senza distinzioni di religione, razza o sesso, come recita la Dichiarazione d’Indipendenza del 1948. Chissà come sarà Israele a 150 anni.
Comunque sia, in Israele per la prima volta ho sentito concretamente che la politica ci riguarda da vicino, che il Presidente della Repubblica ha la funzione di rappresentare tutti, che i deputati sono pagati per discutere e risolvere i nostri problemi. Ci voleva Israele perché imparassi a sentirmi cittadina italiana.

Anna Segre, insegnante