Cannes si inchina al Talmud di Cedar

Hearat Shulayim – Nota a margine trionfa al Festival di Cannes con la storia di una grande rivalità tra un padre e un figlio. Entrambi sono eccentrici accademici che hanno dedicato la propria vita agli studi talmudici. Il padre sembra un testardo purista che rifugge le convenzioni delle istituzioni e i riconoscimenti. Suo figlio, Uriel, appare invece come uno che ricerca elogi ad ogni costo, alla continua caccia di un riconoscimento. Ma un giorno i giochi si capovolgono. I due uomini si scambiano di posto, quando il padre realizza di stare per ricevere una delle maggiori onorificenze in cui un accademico israeliano possa sperare: il premio Israele. Il suo disperato e inconfessato bisogno di ottenere un riconoscimento viene allora tradito, la sua vanità messa a nudo. Uriel è diviso tra orgoglio ed invidia. Interverrà per ostacolare la gloria del padre? Il film è la storia di una folle competizione, l’ammirazione e l’invidia per un modello di comportamento che conduce padre e figlio a un doloroso scontro finale.
Joseph Cedar, da dove viene l’idea di Footnote?
Mi è difficile rispondere a questa domanda senza guastare la visione e rivelare un punto chiave del film, perché questa volta l’idea iniziale era proprio quella – uno snodo all’interno della trama che pensavo fosse interessante sviluppare. È vagamente basato su un fatto cui nella vita ho rischiato di andare molto vicino, e mi sono divertito ad immaginare come si sarebbe sviluppata la cosa se mi fosse davvero capitata. Il film, una volta completo, è risultato comunque molto più complesso rispetto alla mia idea iniziale. Durante la stesura, l’attenzione si è spostata dalla trama a un esame di questi due personaggi.
Lei ha utilizzato diverse tecniche del genere della commedia (scene comiche, montaggi/scelte visive, situation comedy) che potrebbero portare a qualificare il film come intellectual comedy. È d’accordo?
Sono contento che il film possa essere considerato come una commedia; questo significa che il pubblico ride, senza per forza prendere ogni cosa troppo sul serio. Ma se vogliamo essere formali, penso che la storia si possa definire drammatica. Come lo sono la maggior parte dei rapporti padre-figlio.
Il film è un ritratto di due generazioni: quella dei padri e quella dei figli. È una questione di portata universale, ma rappresenta anche un importante volto della cultura israeliana. Quale dei due aspetti ha pensato di affrontare?
Per un po’ mi sono messo a pensare a questa tensione tra l’universale e la specificità culturale. Sebbene non sia ancora sicuro che si possa trovare un equilibrio tra i due, perché l’uno s’impone a spese dell’altro, credo di essere più portato a lavorare con del materiale estremamente specifico da un punto di vista culturale, e spero che le persone al di fuori del mio cerchio chiuso accetteranno in qualche maniera le motivazioni umane. Questa domanda mi aiuta anche a dire ciò che penso sui film che vedo, o sui libri che leggo. Quando una storia è troppo “universale”, o m’insosppetisce, o mi annoia.
Perché ha scelto gli studiosi di Talmud?
Il Dipartimento di Studi talmudici dell’Università ebraica di Gerusalemme è un settore molto particolare. È il più piccolo dipartimento dell’università, ma è molto noto per i suoi metodi inflessibili e il suo severo atteggiamento verso l’idea di errore. Una volta mi sono messo ad ascoltare storie che provenivano dall’interno di questo dipartimento, su leggendarie rivalità tra studenti, testardaggini fuori dal mondo, eccentrici professori che vivono con una missione accademica più importante della loro stessa vita, anche se l’argomento è del tutto esoterico. Mi sono innamorato di tutte queste cose, che sono poi diventate il fulcro di questa storia.
La rivalità tra il padre e il figlio nel suo film implica il sacrificio del figlio, ma forse anche quello del padre?
Preferirei provare a non leggere questi temi nel film, ma penso che la parola sacrificio possa essere molto utile per parlare della natura della relazione padre-figlio.
Può spiegare la conclusione del suo film?
Gli ultimi 15 minuti del film sono stati girati più come una sequenza di danza che come una scena drammatica. Sono stati coreografati più che diretti. Le emozioni erano troppo grandi, troppo contraddittorie, troppo terribili per essere inserite in un dialogo o in un semplice scontro realistico umano. Il risultato è un punto di vista soggettivo d’un evento che, visto dall’esterno, sembra gioioso ed innocuo, ma dalla prospettiva dei personaggi, da dentro il loro “io”, è apocalittico.
È un film sugli uomini. Le donne restano nell’ombra. C’è qualcosa da chiarire su questo punto?
Il personaggio della madre, Yehudit, è un catalizzatore per tutta la storia. Ma è un film su due uomini. Al centro del dramma c’è il loro punto di vista.
Può dirci qualcosa sul titolo? E l’importanza di questa “nota a piè di pagina”?
Uno studioso di Talmud, famoso per il suo stile asciutto e sintetico, mi ha spiegato così l’utilizzo di questa nota a margine: “È un’informazione, o un aneddoto, non sempre certificabile, alle volte anche stravagante o sciocco, spesso nemmeno importante per il testo principale, ma allo stesso tempo è semplicemente troppo irresistibile e stuzzicante per essere tralasciato”. Che è, bene o male, quello che penso di questo film. Tutto il mio film è una nota a margine.

Tommaso De Pas

Alla ricerca di un equilibrio, fra integrità e caduta


Joseph Cedar è uno dei registi Israeliani più apprezzati del momento. Conquistatosi una candidatura al Premio Oscar 2007 grazie al pluripremiato Beaufort, Cedar torna ora sullo schermo con Hearat shulayim, [Nota a pié di pagina], presentato in concorso al Festival del Cinema di Cannes. Nato a New York nel 1968, Cedar si trasferisce giovanissimo in Israele insieme alla famiglia: terminata la leva e laureatosi in Filosofia e Storia del Teatro all’Università di Gerusalemme, torna nella sua città natale per studiare cinema. Ma è in Israele che Cedar debutta, dirigendo Time of Favor (2000), un film intenso che narra la storia di un gruppo di soldati religiosi stanziati in Cisgiordania. È qui che i soldati, agli ordini dello stoico comandante Menachem e sotto l’autorità del rabbino Meltzer, vedono le proprie certezze messe in crisi dalla tesa situazione politica e dalla solenne religiosità dei luoghi. Con il secondo film, Campfire (2004), Cedar continua ad affrontare i temi legati al ritorno degli ebrei nella terra d’Israele: l’appartenenza, l’identità, il patto con Dio. Rachel è una giovane vedova che, cercando di dare un senso alla propria esistenza e di assicurare una vita ordinata alle sue due figlie adolescenti, decide di unirsi a un gruppo di religiosi in un nuovo insediamento nella West Bank. Orso d’Argento a Berlino, Beaufort (2007), ambientato nel 2000, poco prima del ritiro Israeliano dal Libano, mostra invece un gruppo di soldati di Tzahal asserragliati in un forte sotto assedio. Richiusi nel Beaufort in attesa dell’ordine di evacuazione, i soldati affrontano invisibili nemici esterni e le proprie angosce e paure interiori. Il titolo originale, Se esiste il Paradiso, riassume molto bene i temi del film: il valore della vita, il rapporto con il prossimo, la dimensione morale delle azioni umane.
Ebreo osservante e sionista, Joseph Cedar porta sullo schermo, con una sensibilità tutta contemporanea, storie di uomini e donne ebrei che, fortemente coinvolti nel loro presente, non per questo si sottraggono al confronto con la Storia, con i valori della tradizione e con gli insegnamenti e le prescrizioni della religione.
Nel suo ultimo film, Footnote (Nota a pié di pagina), Cedar usa il registro della commedia per raccontare, ancora una volta, una storia dei nostri giorni che trova il suo senso ultimo nel suo rapportarsi ai modelli della tradizione e all’eredità della Storia.
Il Talmud, contenitore dell’esperienza e della tradizione ebraica, è, in questo film, il campo di battaglia nel quale si confrontano due grandi eruditi, i talmudisti Eliezer e Uriel Shkolnik, padre e figlio, dimenticato l’uno quanto celebrato l’altro. Dopo aver passato trenta anni a lavorare su un’ipotesi, Eliezer si ritrova, invece dell’agognato riconoscimento, a essere soltanto citato in una nota a pié di pagina nel libro di un collega. Amareggiato e solo, Eliezer, novello Giobbe, patisce quest’ingiustizia e sviluppa un rapporto di competizione con il figlio che nel frattempo riceve gli onori negati al padre.
La complessa struttura del film, costruita intorno a sottili rimandi interni e all’attenzione al dettaglio (proprio come nel Talmud), l’uso espressionistico della luce, la predilezione per i primi piani e la musica sinfonica della colonna sonora fanno dell’opera di Cedar un lavoro originale. Sospesa tra serietà e commedia, la storia di un padre e un figlio, critica appassionata al carrierismo del mondo universitario e alla materialistica società israeliana, diventa uno scontro tra il vecchio e il nuovo, tra la Verità e la menzogna. In ultimo, un’analisi profonda del nostro bisogno di essere riconosciuti e onorati, bisogno che ci spinge al compromesso e alla perdita della nostra integrità.

Rocco Giansante

Il regista


Nato a New York nel 1968, Joseph Cedar è emgrato in Israele con la la famiglia a sei anni. Il regista ha studiato filosofia e storia del teatro all’Università Ebraica di Gerusalemme e si è laureato alla New York University Film School. Ora vive a Tel Aviv con la moglie e i suoi tre figli. I suoi primi due lungometraggi, Hahesder – Time of favor del 2002 e Medurat Hashevet – Campfire del 2004 sono stati selezionati per rappresentare Israele nella categoria film stranieri degli Oscar. Entrambi i film sono stati in cima alla classifica in Israele e sono stati distribuiti in Nord America ed Europa. Campfire ha aperto la Berlinale del 2004. Cedar ha conquistato poi, sempre a Berlino, l’Orso d’Argento come miglior regista per il suo terzo film, Beaufort, nel 2007. Beaufort ha ricevuto la nomination all’Oscar come migliore film straniero nel 2008. Hearat Shulayim – Footnote è il quarto film di Cedar. “Girando questo film che narra una rivalità famigliare nel mondo degli studi talmudici – racconta Cedar – ho scoperto la mia ossessione per i dettagli”. “Ogni film ha uno stile che in qualche maniera deriva anche dalla trama. Qui racconta di uno studioso, interpretato da Shlomo Bar Aba, ossessivo, meticoloso: il modo in cui è stato girato il film è stato quasi come l’avrebbe voluto quel personaggio”.

Pagine Ebraiche, giugno 2011