Rabbini e giornalisti

In questi giorni si svolge a Trieste il corso intensivo per i responsabili e per gli operatori dell’informazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. È stato per me un piacere conoscere direttamente la nuova leva, vivace e promettente, che in parte avvicenda il gruppo già formato. C’è un serio investimento istituzionale in un progetto che produce risultati concreti e benefici. Tutto questo suggerisce altre riflessioni. Cosa sta producendo l’ebraismo italiano in questa generazione? Rispetto ai grandi personaggi di qualche tempo fa, in diversi settori, se c’è un campo nel quale effettivamente oggi c’è una presenza di rilievo è quello del giornalismo, e l’UCEI ha capito che c’è bisogno di firme autorevoli non solo all’esterno, ma anche all’interno. Si chiama e le persone accorrono. A fronte di questo, il lato dolente è che altri settori, non meno vitali per il futuro, non sono così attraenti. Mi riferisco alla formazione di cultura tradizionale e rabbinica. Si chiama e pochissimi rispondono. Avremo tanti giornalisti e pochi rabbini. Evidentemente bisogna ripensare insieme tutto il sistema. 

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

“Avremo tanti giornalisti e pochi rabbini. Evidentemente bisogna ripensare insieme tutto il sistema” ha detto su aleftav Rav Di Segni giovedì scorso, riflettendo sui risultati positivi di Redazione aperta. Non so se dovremo ripensare tutto il sistema; quello rabbinico evidentemente si. Se noi rabbini fossimo percepiti come soddisfatti della nostra attività, empatici e realizzati – il che in generale non è – le nostre chiamate alla professione forse avrebbero più risposte. Quelle allo studio, dati alla mano e forse non sempre per nostro merito, sono decisamente più efficaci: il disinteresse non è dunque per gli studi di Torah, che mai quanto oggi in Italia hanno molto seguito, quanto per una scelta che non appare per nulla attraente.

Benedetto Carucci Viterbi, rabbino

Bisognerebbe sempre evitare di dire «la mia generazione». Si finisce a parlare di sé e a generalizzare. Quindi partirò direttamente da me  stesso. Il 20 luglio 2001 non ero a Genova; da Berlino seguii gli  scontri del G8, e con sgomento appresi della morte di Carlo Giuliani.  Alcuni mesi dopo il leader dell’estrema destra austriaca, Joerg Haider, si recò in Vaticano per consegnare un gigantesco albero di Natale, e presi parte a una manifestazione «no-global» contro quella visita. La galassia cattolica si era già distanziata dal movimento. Circa un anno dopo andai a Firenze per il Social forum europeo, conclusosi con un grande corteo contro la guerra in Iraq. Oriana Fallaci – avviata oggi alla beatificazione – aveva scritto un articolo vergognoso, preconizzando la devastazione di Firenze per mano di criminali e black block. La prova di maturità dei manifestanti, delle  forze dell’ordine e dei fiorentini fu assoluta, e i nerboruti portuali che la Cgil aveva trasferito da Livorno per il servizio d’ordine non furono necessari.  Genova fu una cesura, almeno per me. La violenza di quei giorni, subita e perpetrata, impedì al movimento di crescere e concentrarsi sui propri limiti, sugli errori e sugli obiettivi. L’acme della partecipazione fu il principio della discesa. Un’illusione, un ideale, una lotta comune da  portare avanti si spezzarono di fronte alle contraddizioni interne e alla pressione esogena, repressiva a Genova e mistificatoria in seguito. Come ebreo, soffrivo di alcune posizioni radicalmente e scorrettamente anti-israeliane. Giorni fa, Riccardo Di Segni ha denunciato il rischio di ritrovarsi  pieni di giornalisti e senza rabbini. Secondo una ricerca condotta  dall’Associazione di cultura ebraica Hans Jonas ed edita da Giuntina (in libreria da settembre), i giovani ebrei provano sfiducia nel futuro e nelle istituzioni, ebraiche e non. Faticano a individuare ideali collettivi. Se posso aggiungere un auspicio a quello del Rabbino capo, vorrei certamente che studiassimo più Torah, ma anche che fossimo più in grado di impegnarci per un mondo più giusto.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas 

L’alternativa posta da rav Di Segni fra giornalisti e rabbini, ripresa poi da vari altri interventi, non è l’unica soluzione possibile. Si potrebbe anche pensare a una figura di giornalista-rabbino. O di rabbino-giornalista. Non sarebbe la prima volta. Uno dei rabbini più famosi, importanti e prolifici (letterariamente parlando) del Novecento fu Dante Lattes, che da giovane rabbino appena laureato divenne redattore del giornale triestino Corriere Israelitico (e forse non è un caso che questo dibattito sia nato nei giorni scorsi proprio a Trieste). Nel giro di pochi anni ne diventò condirettore, grazie anche al fatto di aver sposato la figlia del direttore precedente, A. Curiel. Dalle pagine del Corriere Dante Lattes combatté diverse battaglie giornalistiche, spesso infruttuose, come lui stesso disse, ma che sicuramente smossero le acque dell’ebraismo italiano dell’epoca. E quando nel 1915 il Corriere Israelitico di Trieste si fuse con la Settimana Israelitica di Firenze, che ruotava attorno al rabbino Margulies, nacque il glorioso giornale Israel, con l’annessa Rassegna Mensile di cui Dante Lattes sarebbe diventato direttore.
Ma il rabbino Lattes (che per chi non lo sapesse è il nonno di Amos Luzzatto) non era triestino di nascita. Veniva infatti da Pitigliano e aveva studiato al Collegio Rabbinico di Livorno, niente meno che con Rav Elia Benamozegh. La cosa sorprendente è che a cavallo dei due secoli passati c’era un altro giornale ebraico molto letto e diffuso, il Vessillo Israelitico, di area piemontese (altra zona calda dal punto di vista giornalistico, come vediamo in questi giorni). La direzione del Vessillo si era spostata da Vercelli (dove la rivista si chiamava L’Educatore Israelita) a Casale Monferrato, perché lì era rabbino capo il nuovo direttore, il rav Flaminio Servi, un rabbino molto noto e influente nell’Ottocento. Quello che Dante Lattes fu nel Novecento, dal punto di vista dell’attività giornalistica ebraica, Flaminio Servi lo fu nel secolo prima. La sorpresa sta nel fatto che Servi non era piemontese di nascita, ma era nato anche lui a Pitigliano, alcune decine d’anni prima di Lattes. Che ci sia nella cittadina arrampicata sulle colline toscane un’atmosfera particolare che predisponga al giornalismo rabbinico (o al rabbinato giornalistico)? In fondo, non a caso Pitigliano era chiamata “la Piccola Gerusalemme”. Forse, come l’aria della terra d’Israele si dice renda saggi, anche il pezzetto di Gerusalemme in suolo italico possiede qualità benefiche. Si potrebbe magari organizzare un seminario giornalistico-talmudico nei locali annessi alla Sinagoga pitiglianese restaurata alcuni anni fa. Potrebbero magari venire allievi del Collegio rabbinico (di Roma, di Livorno, di Torino ecc.) e i giovani redattori di Pagine Ebraiche: non è una battuta, è un’idea seria.

rav Gianfranco Di Segni, coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano

Nessuno vuol più fare il rabbino in Italia, e i rabbini se ne sono accorti. I giovani ebrei, infatti, vogliono fare i giornalisti, perché l’UCEI ha investito in questo campo – e a posteriori si può anche dire che ha investito proprio benino. Ma se mancano le ‘vocazioni’ rabbiniche, non sarà perché è mancato un aggiornamento della figura del rabbino in Italia? Non sarà perché, a parte qualche rara iniziativa, non si è proposto negli ultimi sessant’anni un progetto organico vincente per una nuova formazione rabbinica, moderna, internazionale, autorevole, che attiri i giovani come li ha attirati il progetto di formazione giornalistica? I pochi casi impegnati in una seria formazione si sono trovati la strada da soli, magari andandosene all’estero per propria scelta, lontano da qui. I grandi numeri degli iscritti al Collegio rabbinico di recente propagandati sono rappresentati per lo più da studenti ‘part time’ che chissà se arriveranno mai a conclusione produttiva del loro percorso di studi. Come a dire che forse sono un puro costo, un investimento in perdita. Un investimento culturale ebraico, certo, ma a carattere locale, non destinato a incidere sulla vita dell’ebraismo nazionale. Ci si chiede allora perché sul tavolo del Consiglio UCEI non venga finalmente depositato, impegnando un po’ la fantasia, un progetto globale seriamente innovatore per la formazione di una nuova figura rabbinica. A chi spetta tentare di trovare le risposte alle domande del rabbinato se non al rabbinato stesso che le pone avendone acquisito consapevolezza? E l’Assemblea rabbinica dove sta? Direbbe un saggio – e non sono io – che l’unico modo utile di rispondere alle polemiche evitando di mantenerle sul piano astratto della speculazione sarebbe quello di fare qualcosa.

Dario Calimani, anglista

All’ultimo congresso dell’UCEI un aspirante giornalista è stato minacciato dal presidente di una comunità. In un’altra occasione una sua collega è stata duramente rimproverata per una gaffe professionale. Da quanto mi risulta questi sono gli unici rischi professionali corsi di recente da chi vuole intraprendere la carriera giornalistica ebraica. Non che sia un mestiere tranquillo, ma non siamo fortunatamente ai tempi delle BR o nei luoghi dove è caduto Daniel Pearl. Nessuno giudica i giornalisti per come vestono, mangiano, si divertono, hanno una vita affettiva, se studiano, se sono simpatici e divertenti, se sono rigorosi o di manica larga. I giornalisti no ma i rabbini sì. I giornalisti possono essere criticati per quello che scrivono o non scrivono, per gli argomenti di cui parlano e per quelli di cui tacciono, ma non è mai l’attenzione, la passione, la rabbia con cui si critica qualsiasi comportamento o intervento rabbinico, fatto od omesso, specialmente su temi caldi come educazione, matrimoni misti, conversioni, orientamenti sessuali. Ecco forse spiegato uno dei motivi per cui l’opzione giornalistica è da queste parti più appetibile di quella rabbinica. Un tema che ho proposto qualche giorno fa su queste pagine e che ha sollevato un certo dibattito. Fino ad arrivare alla conclusione scontata; che se di nuovi rabbini ce ne sono pochi, di chi è la colpa? Dei rabbini. Appunto.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

La più giovane collega arrivata in redazione mi ha mostrato l’altro giorno con una certa fierezza il tesserino rosso che segna il suo ingresso nell’albo dei giornalisti professionisti dell’Ordine  professionale posto a tutela della nostra categoria. L’oggetto che molti colleghi dimenticano spesso in fondo a un cassetto della scrivania o lasciano in qualche recondito taschino della giacca buona per le occasioni formali di per sé in tanti anni non è cambiato. Quando me l’anno consegnato dopo aver sostenuto l’esame per l’abilitazione professionale ero ancora il felice possessore di una Olivetti Lettera 22 di seconda mano. Inutile ricordare che non si usavano i telefoni cellulari, le stampanti, Internet, skype e tante altre diavolerie che si dice abbiano reso più semplice e immediato (ma non necessariamente migliore) il nostro lavoro. Ho preso così in mano per un attimo il tesserino rosso di Rossella  Tercatin (il mio, lo confesso, non mi ricordo più dove si è cacciato) abbandonandomi a qualche riflessione e cercando di tenere a bada le nostalgie che quando si smette di essere giovani sono sempre in agguato. In fondo questo tesserino rivestito di cuoio, ancora scritto a mano al suo interno, con le caselle incolonnate e pronte a ospitare i bollini annuali di convalida, resta uno dei pochi segni tangibili che continuano a legarci alle origini della nostra esperienza di giornalisti italiani. Abbiamo un Ordine professionale e un’associazione sindacale che tiene sostanzialmente unita la categoria, un autonomo istituto di previdenza,  una Cassa sanitaria integrativa. Istituzioni forse superate, non sempre adeguate, ma anche importanti per continuare a fare questo lavoro con un minimo di dignità in una realtà difficile come la nostra. E continuiamo a batterci perché nuovi giovani possano trovare una strada nella professione giornalistica, condividere con noi le conquiste che, in mezzo a mille contraddizioni e fra tante cadute di credibilità, i giornalisti italiani sono stati in grado di mettere assieme in questi ultimi cento anni di vita professionale organizzata. Quella tessera rossa che ci viene consegnata al momento della prova di abilitazione professionale, i praticanti che sono cresciuti in redazione se la sono conquistata, al pari di tanti giornalisti italiani che in mezzo a mille difficoltà hanno scelto di fare questo lavoro. Così il grande numero di giovani partecipanti ospiti della terza edizione di Redazione aperta, il laboratorio di lavoro giornalistico che ogni estate riunisce a Trieste i giornalisti e i collaboratori del Portale dell’ebraismo italiano www.moked.it testimonia il grande interesse che il lavoro giornalistico suscita fra le giovani generazioni, ma anche il nostro augurio di ripetere presto l’esperienza  di nuovi praticantati giornalistici. Il grande numero di ospiti che sono intervenuti durante i lavori (fra i tanti vorrei ricordare molti leader ebraici italiani e collaboratori fondamentali per il nostro lavoro, come i rabbanim Riccardo Di Segni, Benedetto Carucci Viterbi e Roberto Della  Rocca, intellettuali come Ugo Volli, ma anche giornalisti di primo piano e testimoni di mondi significativi per l’informazione, come il leader della Federazione nazionale della stampa italiana Franco Siddi, che proprio durante i lavori di Redazione aperta ha lanciato al presidente della Federazione editori giornali Carlo Malinconico una netta riaffermazione del valore della professione giornalistica, o il direttore dell’Osservatore romano Giovanni Maria Vian, che ha recentemente ricevuto il riconoscimento di giornalista dell’anno) ha confermato come l’impegno giornalistico in campo ebraico significhi oggi confrontarsi con le opportunità e le sfide di una estrema diversificazione di idee e di identità. Ma anche richiamarsi saldamente alle nostre radici e ai nostri valori di ebrei e di ebrei italiani in particolare. Radici che non possiamo permetterci di mettere da un canto. Per questo seguo con grande interesse il dibattito costruttivo che a seguito degli esiti positivi di Redazione aperta si è sviluppato fra molti nostri collaboratori riguardo alle problematiche poste dall’esigenza di formare giovani giornalisti ebrei e giovani rabbini. Due categorie per la verità molto differenti fra loro, ma anche due poli di professionalità da cui in un modo o nell’altro potrebbe dipendere il  nostro futuro di ebrei italiani. E per questo, al termine dei lavori di Redazione aperta, assieme ai colleghi Adam Smulevich e Rossella Tercatin, due fra i giovani che hanno completato negli scorsi mesi il praticantato giornalistico in redazione, mi sono concesso una pausa di qualche ora per incontrare altri collaboratori che per la redazione costituiscono un punto di riferimento fondamentale e un momento tutto speciale per rivolgere un breve saluto al rav Elio Toaff. L’incontro è avvenuto in un pomeriggio quieto e luminoso, sulle rive di uno dei laghi che rendono prezioso l’ambiente naturale attorno a Roma. Ho preferito restare in disparte, lasciando per qualche attimo i giovani colleghi in tutta intimità a fianco al Rav. Solo i loro sguardi rivolti all’orizzonte sull’acqua. Solo poche parole di augurio e di impegno per il nostro lavoro futuro. Ma anche un gesto fondamentale per ribadire che  senza sapere chi abbiamo da essere, da dove veniamo, quale eredità, quali esperienze ci hanno lasciato i nostri Padri e i nostri Maestri, il nostro lavoro sull’informazione sarebbe solo un vano esercizio di parole. La redazione che lavora sui nuovi media dell’Unione non è un gruppo di lavoro facile da coordinare. Per la gioventù e la scarsa esperienza di molti dei suoi componenti, per l’estrema diversità culturale e identitaria, per la lontananza geografica dei luoghi da cui ognuno opera, per le motivazioni talvolta difficili da accordare che esprimono  molti dei preziosi collaboratori su cui possiamo contare. Ma è anche una realtà di lavoro straordinaria, dove operano giovani che ammiro per il loro impegno, le loro capacità e la loro trasparenza. Sono orgoglioso di condividere con loro il mio impegno di lavoro e di essere al loro fianco. Quell’immagine colta alla luce di un tramonto splendente di un grande anziano e di giovani professionisti che guardano l’orizzonte, mi è rimasta impressa, rappresenta il regalo della mia estate. Il mio augurio è che continui a fare luce sul cammino difficile e duro che attende la redazione attraverso le prossime stagioni di lavoro.

Guido Vitale

Che tra i giovani ebrei italiani gli aspiranti giornalisti siano di più degli aspiranti rabbini non è solo logico, ma statisticamente dovrebbe essere ovvio, visto che la prima delle due professioni è aperta a tutti, mentre dalla seconda è escluso in partenza il 50 per cento, cioè la componente femminile. La cosa strana è come sia possibile che in tutta la lunga discussione in materia questa ovvietà non sembri essere venuta in mente a nessuno (confesso: neanche a me). Non vorrei che, nonostante i numerosi e autorevoli esempi nella storia dell’ebraismo italiano (uno per tutti: Tullia Zevi), ci fossimo dimenticati che almeno dal giornalismo le donne non sono escluse.

Anna Segre, insegnante

Rav Riccardo Di Segni, di cui apprezzo l’arguzia e la profondità di pensiero e ammiro il coraggio nelle dispute con la gerarchia ecclesiastica, commentando il corso di giornalisti (Trieste 18-29 luglio), accenna nella rubrica alef/tav de “L’Unione informa” del 21 luglio 2011, ad una nota dolente dell’Ebraismo italiano: la “formazione di cultura tradizionale e rabbinica”.
Rav Di Segni si dice compiaciuto “nel conoscere la nuova leva, vivace e promettente”, elogia quel “serio investimento istituzionale in un progetto che produce risultati concreti e benefici”, e liquida la questione della formazione rabbinica, di vitale importanza per il futuro dell’Ebraismo italiano, con un semplice “avremo tanti giornalisti e pochi rabbini. Evidentemente bisogna ripensare insieme tutto il sistema”.
“Ripensare il sistema” è un’espressione politica e diplomatica che non dice nulla, anzi riflette l’impotenza ad affrontare e risolvere il problema.
Qui non si tratta di ripensare il sistema con una modifica nel “reclutamento”, qui si deve affrontare l’essenza del problema: il perché non è appetibile la “professione” di Rabbino.
Io ho una grande fiducia nei giovani, nella loro vitalità, nel loro entusiasmo e nelle loro potenzialità che se guidate nella giusta direzione possono dare risultati inimmaginabili.
I giovani, purtroppo, vivono in un’epoca da cui è bandita la spiritualità, dove predominano l’egoismo, l’arroganza e il potere del denaro, pertanto quali esempi hanno a cui ispirarsi? Non esistono più i grandi Maestri del passato che facevano della Torà il loro modello di vita, che riuscivano con l’azione del loro comportamento a inculcare nel cuore dei giovani allievi quei valori etici tipicamente ebraici: loro non erano burocrati, erano soprattutto Maestri di vita.
Non si può invogliare un giovane a intraprendere la difficile “missione rabbinica”, quando c’è troppa ipocrisia, troppo business nell’espletamento delle funzioni, troppa indifferenza nei rapporti umani, troppo attaccamento alle cose materiali.
I giovani hanno una sensibilità superiore e un cuore grande che va riempito di valori come la giustizia e l’amore per il fratello. Ma se il loro cuore ebraico non viene educato, attraverso l’esempio, alle tradizioni e ai valori eterni della Torà, se il loro cuore ebraico non recepisce l’onestà intellettuale dei propri Maestri, difficilmente sentirà l’esigenza di seguirne le tracce. Non basta insegnare la Torà, occorre dimostrare la pratica della Torà che è cosa diversa dall’approccio intellettuale allo studio della Torà.
Ai giovani, invece, viene offerto un esempio di rabbinato meno legato ai dettami della Torà e più proiettato verso interessi economici il più delle volte legati alla kasherut. E non stupisce e non rammarica il fatto che ci siano persone che non possono mangiare kasher né possono far frequentare ai propri figli la scuola ebraica per mancanza di possibilità economiche, negando così alla propria discendenza quell’educazione ebraica che tutti i Rabbini ritengono vitale per la conservazione dell’idea ebraica.
Su tutti questi argomenti andrebbe innescata una discussione seria, perché questi problemi, e soprattutto la questione dell’ingiustizia sociale, rappresentano i germi del rifiuto, dell’abbandono e dell’assimilazione.
Se “ripensare insieme tutto il sistema” va in questa direzione, allora c’è speranza, altrimenti si perde l’occasione di preparare una futura classe rabbinica degna degli antichi Maestri.

Antonio Tirri