Auguri globalizzati

Tra gli auguri natalizi che le organizzazioni di vario genere mandano via e-mail a tutti gli iscritti ne ho ricevuto uno curioso: intorno all’inconfondibile albero addobbato si legge la scritta “Buon Natale” in tutte le lingue, compresi cinese, coreano, giapponese, hindi e turco (ma non arabo). E in ebraico? In modo una posizione abbastanza evidente, nell’angolo in alto a destra troviamo scritto “Hag Hanukkah sameach”, con sopra (unica tra tutte ad avere una traduzione inglese ad hoc) “Happy Hanukkah”. Chi ha inventato il biglietto pensava davvero che Hanukkah fosse il nome ebraico del Natale? In tal caso la cartolina dimostrerebbe quanto sia maldestra talvolta la mentalità del politically correct, che credendo trasmettere un messaggio universale si trova costretto ad ignorare e appiattire le differenze culturali. Forse però l’origine probabilmente americana della cartolina suggerisce la possibilità che chi l’ha inventata sapesse benissimo che Hanukkah non è il Natale e abbia avuto l’intenzione sincera (anche se declinata in modo un po’ rozzo e ingenuo) di fare a ciascuno gli auguri appropriati; in effetti – albero a parte – devo riconoscere che con me ci sono riusciti: è la prima volta che un’organizzazione non ebraica mi fa gli auguri per Hanukkah!
Comunque si debba interpretare la cartolina, rimane il fatto che di fronte agli auguri globalizzati, a un messaggio che vuole essere unico per tutti i popoli del mondo, noi ebrei, con la nostra festa diversa che richiede auguri distinti, diventiamo il simbolo dell’esigenza di rispettare tutte le culture nella loro molteplicità e ricchezza. In fin dei conti la storia di Hanukkah è proprio questo: la difesa della propria specificità di fonte a una cultura egemone globalizzata (per allora) ricca, pervasiva, affascinante e talvolta anche attraente per gli stessi ebrei.

Anna Segre, insegnante