Davar acher – La sentenza di Colonia

Il recente episodio di cronaca della condanna della circoncisione da parte di un giudice tedesco merita una riflessione approfondita, al di là della prima risposta di scandalo o delle trattative e delle pressioni che le autorità ebraiche europee hanno condotto per risolvere il caso, ottenendo finora l’impegno del governo tedesco a proporre una legge in parlamento che dovrebbe risolvere il caso in termini comunque non brevissimi. Com’è noto un giudice di Colonia è intervenuto su un incidente accaduto nel 2010 quando un bambino musulmano durante il rito della circoncisione (che nel caso islamico avviene nell’infanzia e non otto giorni dopo la nascita come per gli ebrei) ebbe a soffrire di una emorragia, peraltro risolta senza danni ulteriori. Come ha scritto il sito della CER, “per il giudice tedesco – si legge nelle motivazioni della sentenza – la circoncisione “è contraria all’interesse del bambino che dovrà decidere più tardi e consapevolmente della sua appartenenza religiosa”. “Il diritto del bambino alla sua integrità fisica” quindi “deve prevalere sul diritto dei genitori” in materia di educazione e di libertà religiosa.” La sentenza del giudice di Colonia riguarda il caso singolo ed è soggetta ad appello e può essere smentita da altre corti, ma per ora fa testo ed è efficace, perché stabilisce una responsabilità consapevole, un dolo vero e proprio per chi oggi provasse a praticare circoncisioni sul territorio tedesco.
Naturalmente che in Germania, teatro settant’anni fa del tentativo sistematico e industriale di eliminazione del popolo ebraico, si proibisca la pratica identitaria basilare dell’ebraismo, non può non fare rabbrividire. Ma al di là delle posizioni soggettive del giudice, di cui non so nulla, sarebbe sbagliato interpretarla semplicemente come un atto consapevolmente antisemita. Una lettura del genere, in tutta la sua gravità, sarebbe perfino consolatoria. Essa invece va accostata alle varie posizioni emerse negli ultimi anni sempre nell’Europa del Nord per proibire la macellazione rituale, considerata non rispettosa dei diritti dell’animale. Essa evidenzia cioè una tensione crescente fra le concezioni umanitarie più “avanzate” e alcune caratteristiche della vita ebraica (e in parte anche islamica). Da questo punto di vista “il diritto del bambino alla sua integrità fisica” e quello dell’animale ad evitare la sofferenza inutile devono prevalere sull’organizzazione religiosa della vita.
Ma il giudice di Colonia che proibisce la circoncisione non si sognerebbe di mandare la polizia in casa della gente per verificare che i bambini non siano ipernutriti fino all’obesità, provocando loro danni veri e permanenti (la predisposizione al diabete, com’è noto, è legata all’alimentazione infantile); coloro che vogliono impedire la macellazione ebraica senza stordimento chimico dell’animale non si sognano di proibire l’allevamento intensivo di pollame, svolto in condizioni di affollamento e reclusione veramente inumane per accelerare l’ingrasso, oppure quel vero e proprio obbrobrio che è la produzione di foie gras realizzando ingozzando forzatamente le oche in modo da provocare in esse quella malattia che è il fegato grasso o steatosi – e mille casi del genere, dal piercing all’abbronzatura infantile, dalla mattanza dei tonni alla caccia.
Se lo facessero sarebbero accusati di invadere la privacy delle famiglie o di interferire col commercio e con l’industria, di violare cioè diritti riconosciuti e tutelati in quanto seri e fondati. Circoncisione e macellazione secondo il rito ebraico o islamico non fanno parte di questi interessi protetti, perché sono atti religiosi (o etnici, una distinzione importante che non è possibile approfondire qui) e dunque rientrano nella sfera individuale; ma soprattutto perché la religione viene concepita secondo il modello cristiano e ancor più protestante come “fede”, cioè un atto cognitivo che non può essere imposto e può essere assunto dall’individuo solo quando le sue capacità cognitive si siano sviluppate a sufficienza; come fosse, diciamo, il sostegno a un partito o a un movimento di idee. Per questa ragione, come ho citato sopra, la circoncisione “è contraria all’interesse del bambino che dovrà decidere più tardi e consapevolmente della sua appartenenza religiosa”. Il problema è che questa definizione di religione come credenza non coglie affatto la natura dell’ebraismo (e probabilmente neanche dell’Islam), perché essa è soprattutto un fare, una “forma di vita” per dirla nei termini della filosofia del Novecento e anche una pedagogia di questa appartenenza, che inizia proprio dalla circoncisione, da quel brit milà che è letteralmente “il patto del taglio” (ma si può leggere anche “della parola”): il patto comunque, il segno di un’appartenenza che è relazione, e relazione anche fisica, concreta, riguardando il corpo e la vita.
Come tutti sappiamo, è piuttosto difficile diventare ebrei da adulti (non sto parlando delle conversioni, qui, ma dell’osservanza), perché le regole da seguire sono complesse e assumere la loro risonanza emotiva. Le scelte del giudice tedesco derivano dall’idea, antropologicamente insensata, ma radicata nel pensiero contemporaneo, da Kant a Kelsen a Rawls, dell’uomo come un individuo astratto, privo di appartenenze, che eventualmente in cuor suo sviluppa una fede o non lo fa, ma questo riguarda solo lui e per il resto è un homo oeconomicus o iuridicus, un consumatore o un elettore indifferente a lingue, culture, identità, che deve essere rispettato come tale (protetto da un “velo” di indifferenza) da stati altrettanto neutri e astratti. E’ lo stesso modo di pensare per cui le marche hanno più diritti delle origini territoriali del cibo nella legislazione europea, o per cui appare “razzista” o almeno “tribale” la richiesta di Netanyahu del riconoscimento di Israele come “Stato ebraico”.
Eppure proprio questa circostanza ne mostra la necessità. Certamente è possibile difendere la circoncisione e la macellazione rituale mostrando che se esse sono condotte con competenza secondo le regole non sono affatto pericolosa l’una e specialmente dolorosa l’altra; che esse in realtà incorporano preoccupazioni igieniche e sanitarie diffuse al di là della barriera religiosa. E soprattutto bisogna sostenere che l’appartenenza a una religione (o a un popolo, non ne discutiamo qui) in primo luogo non è solo questione di fede ma di incorporazione culturale, di appartenenza a una forma di vita; in secondo luogo che le forme di vita (le religioni, le appartenenze) minoritarie meritano particolare tutela contro il pericolo di un’assimilazione automatica nei costumi maggioritari; infine, ma soprattutto, che la possibilità per un bambino di entrare nella religione (nel popolo, nella forma di vita) dei suoi avi non è solo un diritto dei genitori o del gruppo collettivo in cui egli entra (dell’ebraismo), ma innanzitutto un diritto suo. Perché non ci sono uomini astratti, tabulae rasae culturali, ma sempre solo individui concreti che crescono in una forma di vita o nell’altra. Dunque il giudice non ha tutelato la libertà del bambino, ma l’ha violata imponendogli un’assimilazione al modello cristiano (magari cristiano annacquato, come accade oggi) dominante.
E però non bisogna illudersi: questi argomenti possono far breccia, possono contrastare le posizioni superficiali e demagogiche sui “diritti dei bambini” e “degli animali” a essere trattati secondo la cultura e gli interessi dominanti. Ma il problema è molto serio. Nonostante il superficiale pluralismo delle mode e delle cucine, noi viviamo in tempi di globalizzazione. Come durante il Medioevo o l’Impero Romano, la sopravvivenza di minoranze culturali estranee ai costumi collettivi è un fatto imbarazzante, scandaloso, perfino illegale – con la differenza che non vi sono ghetti o statuti extraterritoriali. Anche sul piano delle regole di vita, oltre che su quello politico e della difesa dall’antisemitismo, la sola garanzia per l’ebraismo è l’esistenza di Israele e non come stato multinazionale o neutro, come vorrebbero i “modernisti”, che porterebbe prima o poi esattamente agli stessi problemi, ma come Stato nazione del popolo ebraico.

Ugo Volli twitter @UgoVolli