Tea for Two – Lode a Trieste

Sono giunta a una di quelle conclusioni che hanno un sapore di universalità: amo Trieste. Era quasi un anno che ci ragionavo, non volevo farla vincere facile, ma il viaggio con il seguito di Redazione aperta è riuscito a farmi capitolare. Addio libertà, ora sono avvinta alle colonne di un qualche palazzo in Piazza Unità. Il castello di Miramare mi ha dato l’illusione di essere la principessa Carlotta per almeno cinque minuti, figurandomi mentre mi sveglio in una di quelle stanze tappezzate di broccato con gli occhi invasi da un mare perdutamente blu che litiga scherzosamente con l’azzurro del cielo. Perché amo Trieste? Perché immagino Svevo camminare pensando a burle, violino e inettitudine, Saba che prende qualche appunto nella sua libreria, Joyce che modella il suo Leopold Bloom. La conversazione con la tassista che mi portava alla stazione dei bus è stata illuminante, devo dire che quasi tutti i tassisti del mondo meriterebbero un Ph.D in filosofia o scienze politiche, ma quelli triestini hanno un je ne sais quoi. Quel ‘ragazzaccio aspro e vorace’ come Saba definiva Trieste, è una città dove con i caffè e affini ti portano sempre biscottini e patatine, dove puoi trovare i Meridiani della Mondadori impolverati e superscontati. Gli abitanti amano raccontarla, intessono storie, costruiscono un mosaico di passioni mai sopite. Gli occhi marini di tanti di loro si riflettono nelle acque di Barcola. La Trieste di Magris e Covacich, dell’Anonimo triestino e di Weiss. La amo tanto perché un po’ ci assomiglia: in bilico tra tante identità, cerca strenuamente di essere in armonia con se stessa pur non isolandosi dal il mondo. Italiana si, ma non troppo.

Rachel Silvera, studentessa – twitter@RachelSilvera2