Torna a brillare la Menorah dell’esilio

Esistono oggetti che condensano in sé storia, miti, leggende, emozioni che vanno ben al di là di quanto qualsiasi approccio razionale possa accettare, così come esistono storie che hanno una portata molto superiore a quella che si potrebbe cogliere a una prima lettura. Alcuni di questi oggetti prendono nei secoli un carattere così mitologico da trovarsi al di fuori di ogni possibilità di comprensione, o sono talmente studiati, e con i risultati più eterogenei, da rendere impossibile una risposta definitiva. Altri perdono ogni contatto con la realtà per diventare addirittura, dopo un lungo percorso, protagonisti di fiabe per bambini. Ad esempio lo sviluppo della leggenda del Graal è stato tracciato in dettaglio dagli storici culturali: sarebbe una leggenda orale gotica, derivata forse da alcuni racconti folcloristici precristiani e trascritta in forma di romanzo tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo, fino ai Cavalieri della Tavola rotonda. Poi ci sono i casi che riuniscono tutte queste caratteristiche (fino ad arrivare al finale più classico: la sparizione) e che sono diventati il simbolo di un popolo. E di uno Stato. È dunque evidente che restare indifferenti alla recentissima scoperta fatta a Roma è impossibile. Sono solo poche scaglie di colore, un pigmento giallo ocra brillante, ma sono loro a saldare in un unico momento di grande portata emotiva gli elementi di una storia millenaria. Si tratta della scoperta della colorazione originale della Menorah scolpita in uno dei bassorilievi dell’Arco di Tito. Una traccia di colore che in una specie di folle vortice temporale mette insieme narrazione biblica e storia, secoli di sofferenze e tradizione ebraica, miti, leggende, orgoglio. Tutto anche grazie alle più sofisticate tecniche di ricostruzione digitale e agli spettrometri 3D utilizzati dall’équipe del professor Steven Fine, che guida il progetto di restauro digitale dell’Arco di Tito portato avanti dal Center for Israel Studies della Yeshiva University. Già prima della scoperta l’entusiasmo era palpabile: “L’idea che l’Arco di Tito potesse avere un aspetto differente da quello attuale, che avremmo potuto comprendere meglio, che saremmo forse stati in grado di vederlo così come lo vedevano all’epoca è entusiasmante”.
E ora lo straordinario studio archeologico internazionale, guidato dallo Yeshiva University Center con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha concluso una mappatura tridimensionale dell’Arco di Tito. Il lavoro verrà presentato nella sua interezza il prossimo autunno ma è già evidente che fra le scoperte più emozionanti c’è proprio quella di alcune tracce di giallo ocra sulla Menorah che gli ebrei deportati da Gerusalemme dovettero portare nella capitale dell’Impero come trofeo dei vincitori. Si tratta di una scoperta sensazionale per il mondo scientifico e di una notizia di portata travolgente per il mondo ebraico. Lo stesso Steven Fine ha affermato: “La Menorah raffigurata nell’Arco di Tito è stato il simbolo della determinazione ebraica per duemila anni e adesso è il simbolo del moderno Stato di Israele. Trovarci di fronte al suo colore originale è stato un autentico tuffo al cuore. Sono impaziente di vedere cosa altro troveremo”.
La storia della Menorah inizia con queste parole: “Farai una Menorah d’oro puro, tutta di un pezzo: il piedistallo e il fusto, i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori da essa saranno” (Esodo 25:31). E, come ha spiegato il rav Adolfo Locci in alcuni suoi recenti interventi su moked.it, secondo Ben Ish Chay (Yosef Chayym di Bagdad 1832-1909) la Menorah è oggi simboleggiata dalla Amidah che si recita tre volte al giorno. Inoltre la recitazione dell’Amidah è uno degli strumenti per restaurare la Shekhinah, la presenza divina che, come la Menorah, deve avere alcune caratteristiche. Dev’essere di oro puro (cioè recitata con espressione chiara e senza errori) e tutta di un pezzo (ossia detta in un unica composizione, senza interruzioni) compresi il piedistallo – le preghiere di supplica che seguono la Amidah – e il fusto – le benedizioni che la compongono. I suoi calici rappresentano le singole lettere e parole che formano le benedizioni; i suoi boccioli simboleggiano il luogo del pensiero dell’uomo che deve esprimersi nella recitazione dell’Amidah, i suoi fiori sono le aggiunte che i maestri hanno permesso di fare all’interno delle benedizioni. Ben Ish Chay sembra dirci, svelando questa simbologia nascosta, che quando recitiamo l’Amidah, è come se stessimo davanti alla Menorah, anzi, come se noi stessi fossimo una Menorah. Spiegano i Maestri anche che l’olio per la Menorah, la cui luce simboleggia la Torah, rappresenta lo sforzo diretto di ognuno di noi nella propria attività di studio. Uno studio che deve essere continuo, perenne, fonte necessaria per alimentare la Torah come l’olio lo era per la luce che irradiava dalla Menorah. Quella originale, poi, fatta durante gli anni trascorsi a vagare nel deserto, era di forma meravigliosa: si narra che Mosè avesse gettato dell’oro nel fuoco e che essa si fosse formata da sola; invece quella rappresentata nell’Arco di Tito è probabilmente una delle dieci menoroth fatte da Hiram per il Tempio di Salomone e non l’originale mosaica, che era stata nascosta prima delle distruzione del Primo Tempio.
In definitiva sussistono varie ipotesi su dove possa trovarsi l’orignale della Menorah rappresentata nel bassorilievo: secondo alcuni è proprio a Roma, in Vaticano (addirittura il ministro israeliano Shimon Shitrit, nel 1996, ne chiese informazioni al papa), oppure nascosta in una grotta a Gerusalemme sotto la spianata del Tempio, o ancora nel Tevere, dove furono fatte anche alcune ricerche, vicino all’isola Tiberina. Ma potrebbe essere anche arrivata fino a Costantinopoli… Secondo il professor Fine, in verità, né quella né gli altri oggetti depredati dal Tempio di Gerusalemme sarebbero sopravvissuti all’antichità: furono probabilmente fusi, all’epoca della distruzione dell’Impero romano, nel V secolo. L’unica traccia tangibile è quindi in quell’Arco che, a sua volta, ha un altissimo valore simbolico per il popolo ebraico: un arco trionfale di più di quindici metri di altezza che ricorda a tutti il momento della Diaspora, al punto che per secoli la legge ebraica ha proibito agli ebrei di passarvi sotto, per non rischiare di dare in alcun modo onore ai conquistatori romani. E ora, a distanza di quasi due millenni, a pensare che proprio studiosi della Yeshiva University hanno portato alla scoperta di quel piccolo frammento color ocra, è inevitabile confessare la comparsa di un leggero senso di rivalsa.

Ada Treves, twitter @atrevesmoked, Pagine Ebraiche, agosto 2012