mizvoth…

L’ultima mitzwah che compare nella Torah è quella che stabilisce l’obbligo di ognuno di scrivere un Sefer Torah per se stesso. Delle regole relative a questa mitzwah fanno parte due aspetti: il primo, che non si “esce d’obbligo” possedendo un Sefer Torah ereditato; il secondo, che chi vedesse – mai sia – bruciare un Sefer Torah dovrebbe fare due strappi all’indumento in segno di lutto, uno per la pergamena ed uno per lo scritto. Questo dettaglio è un po’ strano. Di primo acchito, diremmo che in un Sefer la cosa più importante siano le parole, e non tanto la pergamena. D’altro canto, se facciamo riferimento al racconto del Talmud nel quale è descritto il martirio di Rabbì Chaninà’ ben Teradyòn, che fu bruciato vivo avvolto in un Sefer Torah, che alla domanda dei suoi allievi rispose di vedere che le pergamene bruciavano ma le lettere volavano in cielo, dovremmo dire che per la scrittura non c’è motivo di lutto, dato che “non viene bruciata”. E se è così, che senso ha fare lutto “per la scrittura”? Si deve quindi concludere che il lutto non è semplicemente per le lettere, ma per il distacco fra queste e la pergamena, ossia per il distacco fra l’oggetto materiale e ciò che ne determina la spiritualità, similmente alla dipartita di una persona, quando si ha il distacco fra il corpo fisico e l’anima, che ne rappresenta la spiritualità. Da qui abbiamo chiaro qual è il compito dell’uomo, che cosa gli viene chiesto quando la Torah gli impone di scriversi un Sefer Torah: l’uomo deve rinnovare periodicamente il legame fra la Torah spirituale ed il mondo materiale, così come ogni giorno deve portare – con le sue azioni – il mondo fisico al livello di santità, attraverso l’osservanza delle mitzwoth. Specialmente in questi giorni di Teshuvà è opportuno soffermarci e domandarci se abbiamo veramente unito lo spirito alla materia o se abbiamo fatto prevalere questa su quello.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbini d’Italia