I segreti della difesa che ha protetto Israele

A poche settimane dalla fine della crisi tra Israele e la Striscia di Gaza su un punto sembrano tutti d’accordo: il vero eroe del conflitto si è rivelato il sistema israeliano antimissilistico Kipat Barzel, o Iron Dome in inglese (letteralmente “cupola di ferro”, un nome che, come ha fatto notare l’editorialista del Forward Philologos, riecheggia il “Muro di ferro” a protezione del popolo ebraico in Israele di cui parlò Ze’ev Jabotinsky in un suo famoso scritto). Durante l’operazione Pilastro di difesa Iron Dome ha intercettato l’86,3 per cento dei 421 razzi sparati contro aree popolate del territorio israeliano (il sistema è programmato per non intervenire nel caso di razzi verso zone disabitate). Il vicepresidente della società fornitrice Rafael, Oron Oriol, ha spiegato al quotidiano Times of Israel che il sistema non sarebbe mai stato pronto in tempo se non fosse stato per un modo di lavorare della compagnia alquanto inusuale. “Con progetti di vaste dimensioni come Iron Dome di solito si procede per livelli di sviluppo. Questo significa che non si va avanti oltre un certo punto nello sviluppare il missile intercettore, se il radar non distingue ancora tra un Qassam e un aquilone. Se ci fossimo attenuti a questa regola ci avremmo messo cinque anni. Invece abbiamo portato avanti test in parallelo, e preparato la linea di produzione mentre stavamo ancora sviluppando il sistema” ha sottolineato Oriol, ex pilota di F-16. Un approccio che si è rivelato fondamentale quando si è trattato di affrontare l’emergenza dei razzi contro Tel Aviv, che non veniva colpita dal 1991 ed era priva di batteria Iron Dome, che è stata ultimata e consegnata “concentrando in due giorni il lavoro di due mesi”. Ma per capire l’origine del sistema capace di limitare le vittime civili israeliane bisogna fare un passo indietro. Perché, come ricorda il magazine ebraico americano Tablet, l’uomo dietro Iron Dome, è un ex ministro della Difesa che tutti considerano il principale responsabile dei fallimenti che Israele incontrò con la guerra del Libano nel 2006: Amir Peretz. Nel 2006 l’esercito israeliano stava tentando di sviluppare un sistema di armi difensive. Tuttavia, dati gli alti costi e le tante difficoltà, il progetto aveva ricevuto una priorità molto bassa. Fu Peretz a insistere perché le cose cambiassero. Nato in Marocco 60 anni fa, Peretz è cresciuto in una famiglia di lavoratori a Sderot, la città del Negev divenuta simbolo della resistenza contro i razzi. Dopo aver diretto il potente sindacato israeliano, la Histadrut, dal 1999 si è dedicato alla politica. Per il suo legame diretto con la questione dei razzi, molti hanno tentato di sostenere che non considerava il tema con il giusto distacco. Oggi si prende la sua rivincita. “Come ministro della Difesa partecipavo a riunioni con gli ufficiali più alti in grado, eppure era una buona cosa che ci fossi io, un civile, a stimolare un modo diverso di pensare. La difesa è una strategia valida ed efficace e ha salvato vite da ambo parti”. Perché spiega ancora il Tablet “se il numero di vittime civili israeliane fosse stato molto alto, un’offensiva massiccia sarebbe stata inevitabile agli occhi dell’opinione pubblica”. Non tutti sono d’accordo nel considerare Iron Dome come la soluzione ai problemi di Israele: c’è chi pone l’accento sull’importanza di una soluzione politica che ponga fine al conflitto, altri fanno notare come sia insito nelle organizzazioni terroristiche la capacità di trovare i punti deboli dei nuovi meccanismi di difesa per superarli. Solo il futuro potrà dimostrare l’impatto della Cupola sugli equilibri dell’area nel lungo periodo. Che sia positivo è la speranza di molti, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che nello sviluppo di Iron Dome ha già investito 275 milioni di dollari.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, gennaio 2013 twitter @rtercatinmoked