Rita Levi Montalcini – Un secolo d’intelligenza

“Che noia starmene bloccata qui. Non vedo l’ora di tornare a lavorare”. Nemmeno la frattura al femore e il conseguente ricovero ospedaliero riescono a fiaccare alla soglia dei 101 anni la vitalità di Rita Levi Montalcini, a riprova, se ce ne fosse bisogno, che il cervello, se lo si tiene allenato, non invecchia. Anzi. Con l’età, sostiene la scienziata, premio Nobel e senatrice a vita, l’immaginazione si esalta. Diminuisce, questo sì, la capacità di apprendere. Ma, spiega, per uno scienziato “Imagination is more important than knowledge”. Lo diceva anche Einstein. “E se a vent’anni avessi avuto l’immaginazione che ho oggi…” Sospira e mi fissa con i suoi occhi azzurri, trasparenti. La vista le si è andata deteriorando negli anni, ma non si dà per vinta, e riesce ancora a leggere attraverso uno schermo che ingigantisce le lettere. Campeggia nel suo studio, una stanza angusta, monacale, la lunga scrivania carica di libri e di ritagli, un letto che serve da piano d’appoggio. (“Solo che mentre prima leggevo un libro in un’ora, ora ce ne vogliono dieci”.) Centun’anni e continua a lavorare. Si occupa dell European Brain Research Institute, la fondazione che ha fortemente voluto per promuovere in Italia le ricerche sul cervello secondo un modello di eccellenza anglosassone e di cui ha vissuto con angoscia le difficoltà economiche che l’hanno portata al commissariamento. Sta per dare alle stampe un altro libro. Si occupa della fondazione che distribuisce borse di studio alle donne africane: da ragazza sognava di seguire l’esempio di Albert Schweitzer e curare i più derelitti, ora s’impegna per far studiare le donne del terzo mondo. E si prepara per il convegno organizzato a Roma in onore del suo centunesimo compleanno che verterà sulle prospettive terapeutiche dell’Ngf, la molecola da lei scoperta nel 1940 e che le valse il Nobel. Una molecola che si sta dimostrando fondamentale nei processi rigenerativi del cervello, e potrebbe aprire nuovi scenari nella cura dell’Alzheimer. Se dovessi dare una definizione di Rita Levi Montalcini, la definirei una suora della scienza. Nonostante sia ebrea. Nonostante abbia delle civetterie molto femminili, i vestiti firmati Cappucci, i capelli sempre perfettamente in piega. Ma delle suore ha lo spirito di sacrificio, la dedizione totale alla scienza, il disinteresse per il potere e per i soldi. Ha infatti devoluto in Nobel in beneficenza e vive con lo stipendio di senatrice a vita, perché non percepisce né pensione né onorari, nonostante continui quotidianamente a lavorare all EBRI. Non ha mai voluto sposarsi. Essere madre e moglie non faceva per me, ripete a chi le chiede il perché. E lo ha ribadito anche nella sua bellissima autobiografia, purtroppo praticamente introvabile intitolata Elogio dell’imperfezione. Non che le mancassero i corteggiatori. Ma agli incontri romantici lei preferiva le conversazioni con Dulbecco, con Enzo Sereni, con Giuseppe Levi, e alle cene a lume di candela le notti in laboratorio, a controllare vetrini e preparare embioni di pollo. Una scelta di sacrificio alla quale ha aderito con rigore, senza cedere alle lusinghe del successo, senza concedersi vacanze, senza diventare un barone. Preoccupandosi di trasmettere il suo sapere ai giovani, di formare una nuova generazione di scienziati, lottando contro nepotismi, pressioni politiche, consorterie. Un esempio di coerenza e ascetismo rarissimo, soprattutto in Italia. Rita Levi Montalcini non racconta volentieri di sé, rifiuta i giudizi politici: la scienza, ritiene, deve tenersene fuori. Anche del suo ebraismo non ama parlare. La sua religione è la scienza, una religione totalizzante che le lascia ben pochi spazi, e quelli li dedica ai giovani, soprattutto alle giovani donne perché in quanto donna ha dovuto lottare per dedicarsi agli studi. Il padre, autoritario e maschilista, come così frequente a quei tempi, non vedeva di buon occhio una donna all’Università e a medicina, addirittura… Dovette prò arrendersi alla determinazione della figlia, che fin dalla prima gioventù aveva ben chiari in mente i propri obiettivi. Nata nel 1909, Rita subì, in quanto ebrea, le leggi razziali e la persecuzione. “Eppure – racconta – quel periodo così tragico fu la chiave di volta della mia vita. Paradossalmente dovrei dire grazie a Hitler e a Mussolini che, dichiarandomi razza inferiore, mi preclusero le distrazioni, la vita universitaria e mi condannarono a chiudermi in una stanzetta dove non potevo far altro che studiare. Il letto, il tavolo da lavoro, l’incubatrice, pochi strumenti rudimentali e gli embrioni di pollo, che faticosamente riuscivo a procurarmi… Le prime, fondamentali scoperte nacquero lì. Non è un miracolo?”. Strana, la parola miracolo detta da una donna che dice di non credere nella fortuna. Eppure ne ha avuta parecchia, a cominciare dall’essere scampata alle persecuzioni, e aver vissuto durante la guerra in relativa tranquillità. I suoi ricordi non sono infatti drammatici. “Eravamo circondati di gente che ci voleva bene, che ci proteggeva. E ci andò bene”. Nella sua stanzetta adibita a laboratorio, Rita viveva una vita sua, in suo mondo che le consentiva di dimenticare il mondo fuori, le leggi razziali, le scritte antisemite, le incitazioni all’odio. “Ma per la prima volta sentii l’orgoglio di essere ebrea e non israelita, termine che veniva usato nel clima liberale della nostra prima età. E pur rimanendo profondamente laica, sentii vivo il vincolo con quanti come me erano vittime di una campagna così feroce come quella scatenata dalla stampa fascista”. Poi l’8 settembre, e la necessità di scappare da Torino invasa dai tedeschi. Grazie a documenti falsi che con la gemella Paola aveva fabbricato per tutta la famiglia (“pieni di errori, e senza timbri, se qualcuno li avesse vagliati attentamente sarei finita in un campo di concentramento”) e a un nome di fantasia Rita e la famiglia riuscirono a rifugiarsi a Firenze, dopo un rocambolesco e fallito tentativo di fuga in Svizzera. A Firenze madre e figlie trovarono alloggio in una famiglia antifascista che fingeva di non sapere che fossero ebree, e le circondò di affetto e calore umano. Forse per questo Rita non si sente una sopravvissuta. E la sua identità vera, forte, predominante, è quella di scienziata: “anche se mi sento ebrea, sono ebrea, ma laica, totalmente laica”. Laica, o, meglio, libera pensatrice, Rita lo è sin dall’infanzia, quando ancora non capiva bene che cosa significasse, quella definizione che le aveva insegnato il papà per interrompere sul nascere ogni diatriba o curiosità. A casa sua di ebraismo non si parlava proprio. Il padre riteneva che i figli dovessero essere liberi di scegliere, una volta adulti, se credere in Dio, e a quale Dio. E nella sua autobiografia la scienziata ricorda come durante il Seder di Pesach, che celebravano a casa di parenti osservanti, il padre non si esimesse dal criticare nell’imbarazzo generale la crudeltà di Dio per aver inviato le dieci piaghe ai poveri egiziani. Una lezione di umanità alla quale ha aderito nei comportamenti e nei giudizi. Per questo non ama esprimere giudizi su Israele, come spesso è chiamata a fare. “Certo, Israele è per me un riferimento imprescindibile, guai se non ci fosse – dice – Però sono contraria a ogni forma di intransigenza, di fanatismo. Vorrei Israele in pace, capace di comprendere le ragioni dei palestinesi, di arrivare a una soluzione condivisa. E’ un paese straordinario, così ricco a livello culturale, scientifico, e ne sono orgogliosa, anche se io mi sento prima di tutto italiana”. “Ho rotto i rapporti con vari amici perché ero ferita dal loro atteggiamento nei confronti di Israele – continua – anche se ci sono molti aspetti della politica israeliana che non condivido. Ma ciò non incrina il mio attaccamento al Paese. Come ho già avuto occasione di dire è facile da lontano esprimere riserve o giudizi, mentre Israele vive come una fortezza assediata. Prima di congedarmi chiedo a Rita qual è la massima soddisfazione della sua vita. “Il rapporto con i giovani” risponde senza esitare. “All’Ebri abbiamo trenta ricercatori; con sette, tutte donne, lavoro in stretto contatto. Poter trasmettere quello che so, imparare da loro, scoprire qualcosa di nuovo. E’ questo che mi tiene viva, il miracolo quotidiano della mia esistenza”.

Viviana Kasam, Pagine Ebraiche, aprile 2010