chametz…

Nell’indicarci le modalità dei sacrifici da compiere nel Santuario, la Torah (Vaykrà, 2; 17) ci vieta di accompagnare le offerte con il chametz, sostanza lievitata. Colui che porta un sacrificio deve identificarsi con la matzah, farina non lievitata, simbolo di purezza e di umiltà contrapposta al chametz che, viceversa, rappresenta arroganza e superbia. A questa disposizione vi sono tuttavia due clamorose eccezioni: il sacrificio di ringraziamento – sostituito oggi senza un Santuario operante dalla Birkàt ha Gomèl (lo scampato pericolo) – e l’offerta delle primizie nella festa di Shavuòt che prevedono entrambe la compresenza del chametz. Quasi che in queste due situazioni potessimo consentirci un po’ di inorgoglimento per essere scampati a un pericolo e per ricevere la Torah. Ma Shavuòt è anche la festa che viene immediatamente dopo Pesakh nella quale ci è consentito di portare il nostro chametz, da poco bandito, e comunque solo dopo che siamo stati in grado di introiettare e di gioire della nostra matzah. In verità la matzah non è altro che la dimensione embrionale del chametz, e ogni chametz è una potenziale matzah che ha indugiato troppo. Una differenza che, come il nostro ebraismo, si misura tra impegno operoso e disimpegno passivo. Pesach è il tempo più adatto per la solerzia.

Roberto Della Rocca, rabbino

(19 marzo 2013)