Le nostre radici? Dentro un quadro

Se fino a un paio di decenni fa la massa degli appassionati guardava all’arte pre-ottocentesca, oggi l’interesse si concentra in parte sugli Impressionisti, ma soprattutto sul primo Novecento e sul contemporaneo. Lo testimoniano le compravendite sul mercato: la lista delle opere più care di sempre è guidata dai Giocatori di carte di Cézanne (comprato per oltre 200 milioni di euro dagli emiri del Qatar) seguita da vari Van Gogh, Klimt, Picasso, Warhol. Lo dimostra l’affluenza alle mostre, con gli oltre mezzo milioni di visitatori in coda a Milano per vedere i quadri di Picasso, e la consolidata abitudine dei maggiori poli espositivi (Scuderie del Quirinale a parte) di dedicare poco spazio all’arte antica. Questo cambiamento di gusto significa anche che il ruolo dell’arte di ebrei o di matrice ebraica, nata nell’Ottocento e sviluppatasi nel primo Novecento, assume un’importanza sempre crescente. Per rendersene conto, basta guardare al programma espositivo di quest’anno a cui è dedicato questo inserto. Particolarmente interessante è la mostra Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti al Palazzo reale di Milano, dedicata pressoché esclusivamente ad artisti ebrei notissimi o piuttosto noti, vissuti nella mitica Parigi degli anni ‘20 e ‘30. Ma attenzione anche alla ripresa di interesse per Chagall, con ben due mostre a Parigi e a Zurigo, e poi ancora a Kitaj, alle donne artiste ebree. Non è però il caso di gonfiare il petto e sentirsi immeritatamente partecipi di una gloria altrui; piuttosto conviene sfruttare la storia, il patrimonio ideale e culturale in comune con questi artisti, per sviluppare chiavi di lettura originali della loro arte e così della nostra realtà. Un primo percorso di analisi consiste nel comprendere gli elementi ebraici, spesso sfuggenti, delle opere e darne così una lettura più completa, a tutto tondo. Il percorso non è né semplice né univoco. Nel caso di Marc Chagall, il pittore ebreo novecentesco per eccellenza, si tratta di ritrovare le radici bibliche della sua iconografia, un esercizio che comporta lo studio delle fonti e la visione di un buon numero di opere, ma niente più. Per i tanti che, a differenza di Chagall e pochi altri, non hanno esplicitamente usato la Torah come fonte di ispirazione – perché troppo assimilati come Modigliani o perché interessati a lavori astratti come Rothko – l’analisi si fa più difficile. Il rifiuto di creare opere armoniche, la ricerca di un equilibrio fra tensioni opposte, potrebbe essere un indice di attaccamento alla cultura ebraica; certo lo si ritrova anche in artisti non ebrei, ma la cultura occidentale è pervasa di ideali originariamente ebraici. Un’altra chiave da utilizzare è la lettura dei lavori dell’artista nel contesto sociale ebraico del tempo. Si tratta di scavare nel soggetto delle opere, ad esempio ritratti di altri esponenti della comunità (come in Antonietta Raphael o in Modigliani) oppure scene di gruppo in cui compaiono una serie di personaggi identificati (come in Kitaj). Si tratta anche di studiare il rapporto con altri artisti ebrei del tempo: nella Parigi degli anni ‘20, il gruppo a cui faceva capo Modigliani era ben diverso, quasi contrapposto, a quello in cui bazzicava Chagall. Ragionando su questi elementi non si riesce semplicemente a leggere meglio un quadro, ma lo si pone meglio nel suo contesto e si coglie più chiaramente i riferimenti culturali dell’artista e del lavoro specifico. Un’altra chiave su cui soffermarsi è il confronto fra l’artista, il suo lavoro e il mondo circostante, e l’ambiente artistico più ampio. Sono rapporti mai banali, che rivelano aspetti profondi dell’essere ebrei qui e oggi. Armati di queste chiavi di lettura, si può passare una splendida primavera ed estate fra mostre stimolanti di mezza Europa.

Daniele Liberanome, Pagine Ebraiche, aprile 2013
(Nell’immagine centrale di questa pagina Marc Chagall: Il poeta dormiente- 1915)

(21 aprile 2013)