Israele – Sderot e il sogno di pace sulla frontiera

Prosegue il viaggio di JCall. Al centro della giornata di ieri la questione della sicurezza, ovvero la prima condizione che Israele deve porre alla base di ogni possibile trattativa con i palestinesi. Per studiare un simile tema la meta prescelta è Sderot, piccola città di 24 mila anime situata a meno di un chilometro dalla Striscia di Gaza, tristemente famosa per essere il bersaglio privilegiato degli attacchi aerei di Hamas. “Oltre 8000 razzi sono caduti sul territorio della città da quando Hamas è al potere”, riferisce il sindaco David Bouskila.
Nel sud d’Israele, sotto un sole cocente e i 40 gradi portati dal Khamsin, il vento del deserto, la comitiva di JCall scopre una regione provata, stressata, letteralmente traumatizzata dalla decennale incomoda vicinanza, e tuttavia non rassegnata a un destino di guerra perenne.
A Sderot, città povera abitata principalmente da immigrati etiopi e dell’Europa orientale, ogni tre case vi è un bunker antimissile. I bambini giocano nel Blue Box, un grande centro ricreativo indoor costruito per “garantire ai nostri bambini la massima sicurezza”, spiega Bouksila. “Il nostro è credo l’unico comune al mondo che abbia alle sue dipendenze una nutrita squadra di psicologi e psichiatri – racconta ancora il sindaco – il numero dei nostri concittadini che si portano dietro gli effetti di forti esperienze traumatiche è infatti altissimo, quasi pari a un terzo della popolazione”.
Le strutture che si occupano di queste problematiche a Sderot sono infatti d’avanguardia. Come spiega Barak Bitnoun, direttore del Keshet Center e educatore esperto nel trattamento del disagio giovanile, “qui abbiamo particolarmente sviluppato il lavoro sulla resilienza”, ovvero la capacità psicologica di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, cioè di riorganizzare la propria vita quando essa sembra aver perduto ogni forma di stabilità.
La centrale di polizia cittadina espone nel sue cortile numerosi resti di razzi provenienti dalla vicina Gaza caduti su Sderot. Per lo più si tratta di razzi Qassam di produzione artigianale, la cui gittata, nonostante la ridotta potenza esplosiva, non permette mai a chi si occupa della sicurezza di dormire sonni tranquilli. L’ufficiale di polizia addetto alla sicurezza Kobi Harouch incontra i partecipanti al viaggio di JCall, racconta loro del suo delicato lavoro e li accompagna intorno alla città per far capire loro la conformazione del territorio. Dalla cima della collinetta sovrastante Sderot si vedono a occhio nudo i palazzoni di Gaza City. “È da lì che parte la maggior parte dei razzi – dice Harouch – noi siamo perfettamente in grado di localizzare esattamente il luogo da cui l’attacco e lanciato, e tuttavia spesso non possiamo intervenire perché si tratta di edifici civili e una nostra reazione metterebbe a repentaglio la vita di cittadini palestinesi innocenti”. Anche per questo è stata sviluppata l’innovativa tecnica Iron Dome, oggetto delle cronache dei giornali di tutto il mondo. Harouch accompagna il gruppo a vedere questo avanguardistico dispositivo: “Un solo missile di Iron Dome, che spesso viene usato per neutralizzare razzi artigianali fabbricati a Gaza, vale circa 92 mila dollari”. Una sproporzione che molti trovano significativa.
Le dure condizioni di vita di questo territorio non impediscono infatti che si costituiscano e sviluppino iniziative della società civile a favore del pur difficile dialogo con l’altra parte, contro soluzioni repressive. A parlarne è Nomika Zion, nota collaboratrice da Sderot del Huffington Post con il suo War Diary e fondatrice di Kol Aher (un’altra voce), un gruppo di israeliani che vive nel sud del paese, si oppone alla “deumanizzazione dell’Altro nel conflitto” e promuove – consapevole delle difficoltà che ciò comporta – l’avvio di un dialogo con Hamas. L’incontro con lei avviene appena fuori da Sderot, a Saad, un kibbutz religioso a ridosso situato anch’esso a ridosso del confine con Gaza. Insieme a Dani Lazar, direttore del kibbutz, Zion racconta il suo impegno e le attività di Kol Aher. “Sappiamo di rappresentare una posizione minoritaria all’interno della società israeliana e siamo pronti a pagarne il prezzo sociale e politico”. Anche Lazar, che da 45 anni vive a Saad, ritiene questo un atto di coraggio necessario, imprescindibile per le speranze stesse di sopravvivenza dello Stato d’Isrele. “Molti pensano che i religiosi siano solo conservatori e intolleranti, mentre molti religiosi mi ritengono una specie di idealista sinistroide. Io credo invece di essere sempre stato coerente con me stesso e con i miei valori lavorando per una società pacifica e tollerante”.
La sensazione di questi pacifisti di frontiera e di avere una responsabilità in più proprio per la loro vicinanza geografica a Gaza. Proprio questo territorio ferito – immaginano – deve divenire un ponte fra due popoli.

Manuel Disegni

(29 aprile 2013)