Confini labili,
futuro incerto

Presi da altre priorità abbiamo lasciato temporaneamente ai margini delle nostre riflessioni le crisi mediorientali. Che stanno evolvendo verso un qualche esito che non è chiaro in nulla e a nessuno. Si tratta di un moto inerziale, quello che si va registrando nei fatti. In parte prevedibile giacché l’intera regione Memo (Mediterraneo e Medio Oriente) sconta gli effetti di un multipolarismo imperfetto, dove alla caduta del patrocinio sovietico già più di vent’anni fa si è sostituita una presenza selettiva per parte russa. Del pari, dopo la presidenza Bush, l’azione americana si è fortemente ridimensionata. Manca quindi un frame, una cornice identitaria chiara. Se il quadro generale di riferimento è sommariamente questo, gli attori che interagiscono all’interno di uno scenario così ampio, complesso e stratificato non hanno strategie facilmente identificabili. Il nocciolo delle tensioni lo registriamo oggi soprattutto in Siria, che è divenuta la madre di tutte le crisi. Anche se sottovalutare le difficoltà e i fuochi di fiamma, peraltro tutto fuorché fatui, nell’Africa sub-sahariana sarebbe un errore capitale. La più grande difficoltà con la quale abbiamo è di identificare la natura dei protagonisti in campo. Si parla, e non a torto, di radicalismo islamista, ma è bene ricordarsi che esso non è un blocco compatto bensì una galassia di soggetti, tra di loro in competizione, spesso armata. La quasi totalità delle vittime di ciò che definiamo fondamentalismo musulmano, da quando ha fatto la sua potente comparsa sulla scena politica internazionale con la fine degli anni Settanta, è da computare nello stesso campo islamico. È quindi impossibile identificare un progetto unitario, mentre di certo sussiste un’ideologia comune di riferimento, declinata secondo le cosiddette “scuole” di appartenenza, che rimandano a loro volta ad osservanze di ordine politico, clanico e territoriale distinte e antagoniste. Il Medio Oriente contemporaneo sta peraltro vivendo, a modo suo, quella crisi delle sovranità nazionali che attraversa anche il mondo occidentale, a causa dei processi di globalizzazione socio-economica che minano i poteri degli Stati.
Il punto è che nel suo caso ciò non deriva solo dalle trasformazioni innescate dai mercati ma dalla sua cronica marginalità ad essi e dal conseguente frantumarsi delle dinastie politiche, non importa se monarchiche o repubblicane, che ne hanno garantito, nel corso del decenni successivi al dopoguerra, una qualche forma se non di stabilità quanto meno di prevedibilità. La mappatura della regione, quindi, indica uno slabbrasi dei confini per come ancora sono formalmente disegnati e riconosciuti sulle cartine geografiche. Poiché l’influenza dei centri di potere statali è tornata ad essere distribuita in maniera non uniforme. Se nei grandi agglomerati urbani le autorità riconosciute esercitano ancora una giurisdizione tangibile, mano a mano che ci si allontana da esse, e dalle grandi arterie di comunicazione, le cose mutano. Sono infatti le vecchie affiliazioni claniche e tribali che prendono il sopravvento, rivelando una capacità di monitoraggio del territorio che alle autorità centrali, se nel passato a volte ha fatto difetto, oggi manca oramai del tutto. I confini legali, giuridici definiti dai trattati internazionali e sanzionati per l’appunto sulle cartine politiche tendono quindi a smussarsi e, in qualche caso, ad elidersi. Così nella Libia meridionale, dove alla persistenza di uno Stato centrale si sovrappone la vecchia tripartizione tra Tripolitania, Cireanaica e il Fezzan nonché l’azione dei gruppi nomadi. Non di meno per la già citata situazione in Siria, che investe di riflesso l’Iraq settentrionale e il Libano, dove più che di giurisdizioni pubbliche sarebbe meglio parlar di aree di influenza degli uni piuttosto che degli altri. Ma gli uni e gli altri in guerra, ovviamente. Il confronto tra sciiti e sunniti ha ripreso vigore, alimentandosi della guerra civile in corso nell’area, che rischia di fondere una parte del Libano con la Siria. La famiglia Assad controlla soltanto il corridoi strategici che legano Homs ad Hama e l’area costiera tra Latakia e Tartus, zona, quest’ultima, di stanziamento degli alauiti e dei russo. La Siria settentrionale e orientale è terreno di confronto tra le fazioni curde, almeno una mezza dozzina. Gli stessi curdi, questa volta divisi in due gruppi maggioritari, controllano l’Iraq settentrionale, un paese dove l’instabilità è oramai un fatto permanente. Baghdad ha una prese pressoché nulla sulle regioni periferiche. I gruppi sunniti di fatto si sono costituiti come entità autonome, soprattutto laddove sono la maggioranza, ed in particolare tra il fiume Eufrate e il confine siriano. Per quanto riguarda la parte restante del paese, a maggioranza sciita, la situazione è a pelle di leopardo. Su tutta la regione domina comunque l’incognita siriana. Il regime di Bashal al-Assad, ancorché fortemente indebolito, ha dimostrato, grazie al sostegno russo e a quello iraniano, di sapere resistere, forse ancora per molto tempo.
Il quadro si presenta così sotto l’ombrello della frammentazione. Se all’epoca dell’Impero ottomano il sultano governava con una certa sicurezza, lasciando un relativo margine di autonomia ai sudditi, e se nel periodo coloniale Francia e Gran Bretagna hanno esercitato una morsa centralista accentuata, oggi, al declino delle dittature e della autocrazie post-coloniali, sta subentrando la parcellizzazione dei poteri come dei gruppi di potere. Lo scontro permanente è il prodotto del sommarsi dell’azione di una pluralità di faglie critiche. La prima di esse è quella che intercorre tra popolazioni disorientate, in preda ai gravi disagi di una modernità mancata, e gruppi dirigenti miopi e chiusi nei castelli dei loro privilegi. La crisi di legittimità dei poteri costituiti attraversa l’intera area Memo e sarà una costante anche per i tempi a venire. Il secondo elemento critico è lo sfaldamento della contrapposizione binaria, sulla scorta di identità politiche precostituite (quelle che intercorrevano quando il mondo era bipolare), alla quale si è sostituita una lotta che sul piano culturale e ideologico rimanda alla medesima matrice, l’Islam. La qual cosa, essendo ben lontana dal costituire un fattore di concordia e armonia, ha invece incentivato le preesistenti competizioni per aggiudicarsi il ruolo di migliori titolari della palma di legittimi rappresentanti dell’eredità musulmana. Fatto, quindi, che rende sempre più “muslims inside” le lotte in corso. Non di meno, il principio per cui la politica era una prerogativa di cerchie ristrette di privilegiati, legati da vincoli di solidarietà con il sovrano, spesso di natura tribale, è venuto meno oramai da anni. L’asabiyya, l’insieme degli elementi di reciprocità autoritaria che legano il regnante con il notabilato e questi con il popolo, è oramai un concetto superato da tempo. La coesione sociale, oggi, si gioca su elementi assai più mobili, in maggiore sintonia con l’evoluzione tecnologica ma anche dei costumi e – in immediato riflesso – con le aspettative di partecipazione e di redistribuzione che le collettività nazionali esprimono. In mancanza di un adeguato soddisfacimento di queste richieste, così come si è assistito con il declino delle primavere arabe, le tensioni si sono tradotte in rivalità inconciliabili, dove una combinazione di arcaico (i gruppi clanici e i cosiddetti “vincoli di sangue”) e di moderno (tecnologie belliche, di comunicazione e di mobilitazione di massa) hanno dato esito alla frammentazione che sta caratterizzando l’intera macroregione.

Claudio Vercelli