Il rabbino prigioniero dei media e il veleno del protagonismo

Incredulità, disorientamento, dolore. Ora forse solo la colpevole tentazione di dimenticare. L’inquietante vicenda che ha coinvolto il rabbino capo di Francia Gilles Bernheim e lo ha repentinamente indotto a rinunciare alle sue funzioni, ha aperto una ferita profonda e non può essere archiviata come uno spiacevole incidente di percorso, rimossa dalla nostra coscienza come si trattasse esclusivamente di un infelice caso personale. E’ piuttosto il dovere di tutti cercare di comprendere quanto accaduto e tentare di volgere in positivo, di trarre insegnamento da un avvenimento disastroso che rischia di sminuire la credibilità del rabbinato istituzionale e di riflesso quella dell’ebraismo religioso. Certo si è trattato di uno di quei momenti in cui la realtà sembra superare la più distorta delle fantasie. Accusato di aver riportato testi non suoi e senza citarne la provenienza in numerose pubblicazioni e anche nel suo discusso documento sul matrimonio fra persone dello stesso sesso e sull’omoparentalità, incolpato di aver vantato titoli accademici mai conseguiti, il rav ha dapprima reagito cercando di attribuire la responsabilità ad altri; poi ha riconosciuto quanto accaduto rifiutando, con un lungo, contorto discorso e fra non pochi imbarazzi, di dimettersi; infine ha ritenuto di fronte al Consiglio del Concistoro delle Comunità ebraiche francesi di lasciare, più o meno spontaneamente e fra lo sgomento generale, l’incarico. Molto duro da comprendere, se ci fossimo trovati di fronte a un modesto arrivista disposto ad agire con disinvoltura per il proprio tornaconto personale. Quasi impossibile, se si parte dalla consapevolezza che il protagonista di questo rovinoso infortunio è ben evidentemente dotato di una preparazione formidabile e nessuna forza razionale avrebbe potuto nella sua solida situazione di autorevolezza trascinarlo a tali comportamenti. Resta quindi aperta la domanda. Perché tutto questo ha potuto avvenire? E la risposta rischia di restare confinata per sempre fra i misteri dell’animo umano. Proprio di fronte a un interrogativo così impervio e a una risposta tanto difficile mi è tornato alla mente un insegnamento donato dal rav Zev Leff al margine di una convention dell’Agudath Israel of America. “C’è una differenza – mi ha detto – fra la Torah e la Chochma, la sapienza. La sapienza non deve necessariamente influenzare il comportamento di chi la possiede. Vi sono stati grandi geni nelle arti e nelle scienze il cui comportamento era indegno. La loro mancanza di integrità non ha tolto nulla alla loro genialità e la loro sapienza non ha aggiunto nulla al loro carattere. Quando fu fatto osservare a Bertrand Russell, cui era stata affidata la cattedra di Etica al City College di New York, che la sua vita privata non era precisamente morale, lui legittimamente reagì con ironia: ‘Strano, per molti anni ho insegnato geometria ma non ho mai sentito il bisogno di essere un poligono’. Una persona – ha aggiunto il rav Leff – può possedere la sapienza, ma solo la Torah può possedere una persona. E dove lo studio della Torah non trasforma il cuore di chi studia, qualunque grado di conoscenza si raggiunga è destinato a restare nella sfera della sapienza secolare e non della Torah”. “Trasformare una persona – ha concluso – significa renderla partecipe delle sofferenze altrui, disposta all’ascolto, sempre attenta a non trasformare le proprie competenze in un mezzo per opprimere o per umiliare gli altri. Perché l’ebraismo non è monolitico e vi sono molti legittimi approcci alla nostra identità”. Resta così un nostro dovere interrogarci e leggere per quanto possibile le cause e gli effetti di quanto accaduto. Indubitabilmente non si tratta solo di una storia interna al mondo ebraico, anzi il detonatore sta dalle dinamiche difficili e inevitabili che si innescano nel rapporto fra il mondo ebraico e la società. Al di là dei numerosi e bellissimi libri del rabbino (che i suoi detrattori si mettano il cuore in pace, restano bellissimi nonostante siano ora condannati a finire nel dimenticatoio perché macchiati da quanto accaduto), dei suoi efficaci interventi sui media, delle sue apprezzate lezioni, ha pesato la sua grande capacità di comunicazione e il fatto che nel suo discorso di dicembre papa Ratzinger abbia diffusamente lodato il documento rabbinico contro il rapido processo di riconoscimento dei diritti civili alle coppie dello stesso sesso, che la stampa cattolica abbia sottolineato con foga il significato di questo testo, che anche delle nostre parti intellettuali di primo piano si siano entusiasmati tanto da giungere al tentativo di squalificare la tradizione ebraica italiana di tolleranza e moderazione e da accusare l’ebraismo italiano di essere ostaggio degli intellettuali progressisti e di un rabbinato eccessivamente prudente. Il fatto che alcuni passaggi del testo tanto apprezzato venissero, all’insaputa del lettore, dall’opera di uno stimato sacerdote cattolico ha finito poi per aggiungere una nota grottesca alla tragedia. Se non altro chi lavora sul fronte dell’informazione ebraica dovrebbe forse ora interrogarsi su cosa ci attendiamo dai nostri Maestri. Facilitare al massimo la loro possibilità di esprimersi è certo parte del nostro lavoro e costituisce un processo faticoso e delicato. Ma la rincorsa indiscriminata alla massima visibilità, alla performance, al web, alla radio, alla televisione, al video, al blog, al tweet, alle serate di gala, alle relazioni istituzionali e alle cerimonie ufficiali, è quello di cui abbiamo bisogno? O non sarà forse quello che gli altri si aspettano da noi, il ruolo che ci assegnano e ci chiedono insistentemente di riempire? La regola del gioco che minaccia quella componente insostituibile del nostro animo da identificare come il bene più prezioso?

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, maggio 2013

(9 maggio 2013)