Un luogo per tutte le domande

berlinoVisitare una mostra con chi l’ha ideata è come quando si va per la prima volta a casa di qualcuno e si fa il giro delle stanze. Ci sono quella sicurezza rilassata e quella naturalezza dolcemente orgogliosa nei passi di Martina Lüdick mentre fa da Cicerone alla redazione di Pagine Ebraiche in visita a Berlino fra le sale di “The Whole Truth, everything you wanted to know about Jews”, la mostra in corso fino a settembre al Museo ebraico, di cui è curatrice. Dietro alla mostra che si propone di sfatare tutti i miti e rispondere a tutte le domande possibili sugli ebrei attraverso semplici oggetti della vita quotidiana, c’è la mente di una letterata, Martina, che ha collaborato con una filologa e una teologa, le altre due curatrici. “Abbiamo basato la mostra su trenta domande scelte fra quelle che i visitatori del museo hanno lasciato scritte sui quaderni di commento posti alla fine del percorso: il nostro scopo non è però fornire una risposta ma suscitare riflessioni e nuove domande attraverso gli oggetti esposti. In questo l’approccio è molto ebraico”, spiega sorridendo. La gente viene sperando di capire di più sugli ebrei e invece esce con ancora più punti interrogativi, ma nessuna delusione, anzi, “le persone trovano la mostra molto illuminante, abbiamo stimolato un grande dibattito. Addirittura, gli operai che durante l’allestimento della mostra attaccavano alle pareti le lettere che formano le citazioni e le domande mi hanno detto che hanno discusso animatamente sui contenuti di quello su cui lavoravano, e non era mai capitato prima”, racconta Martina. Così, lettera per lettera, la mostra ha preso forma, con i suoi espositori dalle forme asimmetriche, di un rosa shocking molto pop. “Volevamo un colore forte, e abbiamo scelto quello che ci era stato descritto come una via di mezzo tra un color fragola e un lampone. Il risultato è stato questa tinta fucsia che, abbiamo notato dopo, è uguale a quella della compagnia telefonica Deutsche Telekom”. Così continua la passeggiata fra quesiti esistenziali (Perché gli ebrei non piacciono a nessuno? La pace fra le religioni è possibile?), curiosità (Cosa fanno gli ebrei a Natale? Cosa succede ai bigliettini del Muro del Pianto?) e giocosi sondaggi basati su gettoni colorati da mettere in contenitori trasparenti, riguardo i grandi classici del pregiudizio. Gli ebrei naturalmente risultano influenti e attaccati al denaro, ma anche a quanto pare appassionati di animali. “Oh no, quest’ultimo l’abbiamo inventato, per dimostrare quanto facilmente influenzabile sia la mente delle persone”. Si passa davanti a una sala che si chiama Ask the Rabbi, dove passano a ciclo continuo video in cui alcuni rabbini danno la loro risposta a una serie di quesiti sulla ritualità e la spiritualità ebraica. Una parte molto importante della mostra, spiega Martina, “perché è l’unica ad affrontare tematiche di stampo puramente religioso, mentre tutte le altre riguardano questioni politico-sociali”. Il gruppo di rabbini, omogeneo per quanto riguarda la nazionalità tedesca, è piuttosto eterogeneo dal punto di vista delle denominazioni, per cui convivono opinioni di matrice ortodossa e riformata. E così, passeggiando fra kippoth e cappelli che calano dal soffitto e bottiglie di vino di Reggio Emilia con l’immagine di Hitler sull’etichetta (ebbene sì, anche l’Italia è gloriosamente rappresentata all’interno degli scrigni fucsia), si arriva davanti alla grande star della mostra, quello a cui i giornali hanno affibbiato il nome di Jew in a box, l’ebreo in vetrina. Se ne sta lì, un paio d’ore ogni pomeriggio, con la sua presenza parlante, a rispondere alla domanda: ci sono ebrei in Germania? Una bella provocazione che ha fatto tanto parlare e discutere la stampa internazionale, ma che Lüdicke non ritiene troppo ardita: “Per molte persone si tratta di un’opportunità irripetibile, la maggior parte dei tedeschi non ha mai occasione di trovarsi faccia a faccia con un ebreo e chiarire i suoi dubbi e dunque la realtà è che degli ebrei si sa molto poco”. Ma chi sono gli ebrei in scatola? “Chiunque”, risponde Martina. “Molti studenti, ma anche artisti, qualche rabbino, e anche giornalisti che volevano raccontare l’esperienza dall’interno. All’inizio sei mesi ci sembravano lunghissimi, non pensavamo che saremmo riusciti a trovare una persona al giorno, invece poi c’è stata maggior richiesta di quanta fosse la disponibilità”. Il futuro di questa mostra si preannuncia tanto roseo quanto le sue teche: Martina racconta che intendono portarla in altri musei e soprattutto di creare qualcosa con le foto di tutti quelli hanno fatto da modelli in vetrina. “Inoltre mi piacerebbe sfruttare anche tutti i post-it attaccati sulla parete finale della mostra, con i commenti di tutti i visitatori, che spesso si sono trasformati in sorta di conversazioni botta e risposta, talvolta veri e propri dibattiti, sovrapposti gli uni sugli altri come in un social network analogico. Sono la mia parte preferita della mostra”, confessa. Obiettivo raggiunto, dunque? “Sicuramente quello di stimolare i tedeschi e i visitatori di tutto il mondo su questi temi. E sempre su questa lunghezza d’onda si inserisce il prossimo progetto che sto curando, una mostra sulla circoncisione, un tema davvero caldo in Germania”. Che cosa dunque rende ebrei, viene chiesto. Una risposta che la mostra cita è quella celebre di Ben Gurion, è ebreo chiunque sia abbastanza meshuggeh, matto, da chiamarsi tale. Ma il sorriso determinato di Martina sembra dire: la capacità di farsi domande e discutere, sempre.

Francesca Matalon – Pagine Ebraiche agosto 2013

(15 agosto 2013)