Qui Ferrara – Foer, il campione della memoria

ferrarafoerJoshua Foer è molto giovane, e quando lo si incontra la sensazione è davvero quella di avere a che fare con un ragazzino. Allegro, scanzonato, curioso di chi ha di fronte, e sorpreso dall’attenzione che sta ricevendo anche in Italia. “Nessuno mi cercava, prima che diventassi US Memory Champion. Prima che pubblicassi ‘Moonwalking with Einstein’ non interessava a nessuno intervistarmi”. Invece a Internazionale a Ferrara, il festival organizzato dal settimanale che porta lo stesso nome e che si definisce anche “un weekend con i giornalisti di tutto il mondo” l’intervista pubblica a Joshua Foer condotta da Marino Sinibaldi ha avuto un enorme successo, non solo di pubblico. Il titolo, “Una memoria da elefante. Come allenare il cervello e imparare una lingua in un mese” era sicuramente molto accattivante, così come una certa attrattiva esercita probabilmente essere fratello del più noto Jonathan Safran Foer, ma c’è qualcosa, nella semplicità e allo stesso tempo nella determinazione di questo trentenne americano che va molto oltre.
È giornalista scientifico, con un obiettivo primario molto chiaro: “Voglio fare cose che mi divertono, che mi interessano, e che – si spera – mi permettano di vivere, bene”. La moglie lo ha appena salutato, c’è un pannolino da cambiare, e lui si presta volentieri a rispondere alle domande, a patto di essere poi puntuale per poter andare in giro con la sua famiglia, cosa che continuerà a fare nei prossimi giorni, da turista.
Confessa subito di essere spiazzato: “Mi hanno chiesto di tutto, qui, compreso quello che penso della situazione politica italiana… Ma perché dovrei rispondere e poi, sinceramente, perché a qualcuno dovrebbe interessare quello che ne penso?”.
Pubblicato in italiano con il titolo “L’arte di ricordare tutto” da Longanesi, il suo libro non dice solo come è riuscito in un anno a vincere il titolo di Campione americano di memoria ma soprattutto racconta un percorso, che lo ha portato a conoscere persone decisamente fuori dalla norma, ma soprattutto ad esplorare il significato profondo dell’idea stessa che abbiamo oggi di memoria.
“Per scrivere si prendono una serie di fatti e di idee e si costruisce un percorso che dirige verso una storia che collegherà tutto. Lavorando il legno si parte dal prodotto finale che si ha in mente e si ragiona all’indietro fino a tornare al legno grezzo… Quando scrivi, ogni passaggio della storia che stai creando deve giustificare il passaggio precedente. Quando lavori il legno ogni passaggio deve giustificare quello successivo. In una giornata fortunata riesco a esercitare tutti e due i processi mentali.” Questa è la risposta che si ottiene cercando di farsi raccontare se usa tecniche particolari per scrivere. Anche il luogo che lo ispira non è convenzionale: “Quando vivevo a Brooklyn qualche volta prendevo una treno della linea Q della metropolitana, andavo fino al capolinea, a Coney Island, e tornavo indietro, lavorando sul mio portatile. C’è qualcosa nel modo in cui i newyorkesi cercano di sbirciare cosa fai che ti obbliga a scrivere una frase dopo l’altra.” Forse bisognerebbe aspettarselo, dal più giovane di tre fratelli talmente noti da far parlare i giornali americani di Foerocracy: Franklin, il maggiore, editor di New Republic e autore di “How Soccer Explains the World: An Unlikely Theory of Globalization”, Jonathan Safran ha scritto “Ogni cosa è illuminata” e “Molto forte, incredibilmente vicino”, oltre al saggio “Se niente importa”.
Ciononostante non è semplice riuscire a trovare un filo conduttore che colleghi l’attività principale di Joshua Foer, giornalista scientifico, con iniziative di grande richiamo come la Sukkah City o come Atlas Obscura. Ma la notorietà è arrivata con “Moonwalking with Einstein”, il racconto che è diventato anche l’argomento di una delle TED talks più viste di sempre, in cui riesce a divertire e entusiasmare il pubblico nonostante l’argomento, tecniche di memorizzazione, non sia esattamente la cosa più godibile del mondo.
“Vi voglio raccontare di un concorso molto strano, il ‘Campionato statunitense di memoria’: un paio di anno fa vi ero andato come giornalista scientifico e mi aspettavo che si trattasse del Superbowl degli idioti sapienti. Di fatto si trattava di un gruppo di persone che riuscivano a ricordare centinaia di numeri guardandoli una sola volta. O stavano memorizzando centinaia di nomi di perfetti sconosciuti, o intere poesie, e si sfidavano per vedere chi riuscisse a memorizzare più rapidamente l’ordine casuale di un mazzo di carte. E io ho pensato che queste persone dovevano essere un qualche scherzo della natura, così ho cominciato a par- lare a qualche concorrente. Ma tutti quelli che ho intervistato mi hanno detto di non essere affatto dei savant e, anzi, di avere una memoria del tutto normale. Ma di essersi preparati.” Questo l’inizio di un’avventura che lo ha portato a studiare tecniche millenarie, usate già da Cicerone per memorizzare i suoi discorsi, tecniche che lo hanno obbligato a ragionare su cosa sia la memoria, come funzioni, e perché a volte invece non funzioni. Una sorta di viaggio meraviglioso attraverso quella cosa unica che ci permette di essere quello che siamo. Un viaggio che lo ha portato a conoscere persone che soffrono di amnesie così profonde da non riuscire neppure a ricordare di avere un problema di memoria, o – all’estremo opposto – a passare una giornata in compagnia dell’ispiratore di Rain Man, imparando insieme, a memoria ovviamente, l’elenco del telefono di Salt Lake City. È l’idea stessa di avere una memoria allenata, disciplinata, coltivata, ad apparire strana ai nostri occhi, ma non è stato sempre così: una volta la gente investiva nella propria memoria, prima che gli esseri umani sviluppassero una serie di tecnologie sempre più raffinate – dall’alfabeto alla carta stampata, fino agli smartphone – che hanno portato a un vero e proprio e proprio outsourcing della memoria. Ma avere così poco da ricordare sembra quasi averci fatto dimenticare come si fa, portando ad una trasformazione culturale profonda, che si è probabilmente accompagnata ad una trasformazione cognitiva. I campioni di memoria sono stati studiati anche da un punto di vista scientifico: un laboratorio dello University College di Londra li ha sottoposti a vari test per capire se il loro cervello è strutturalmente differente da quello di una persona dalla memoria “normale”, e la risposta è stata negativa. Così come non si tratta di persone più intelligenti della media, anche se una differenza importante in realtà esiste, ed è stata mostrata grazie alle tecniche di neuroimmagine funzionale: i campioni di memoria usano anche quella parte di cervello che si occupa di memoria spaziale e di orientamento. È dimostrato che le associazioni mentali rendono più facile recuperare i ricordi, e le tecniche dei grandi memorizzatori si basano esatta- mente su questo, su una cosa che gli psicologi chiamano codifica elaborativa. Perché la nostra memoria non è un semplice meccanismo di registrazione, bensì un processo costruttivo. Ricordiamo le cose che hanno un contesto, un significato, che sono ricche di senso. Ricordiamo quando prestiamo attenzione, quando siamo coinvolti, ricordiamo le informazioni che per noi sono importanti, che sono per noi significative. Le tecniche di memorizzazione, che sembrano magiche, in fondo sono tecniche, appunto, sono trucchi, obbligano a prestare attenzione, che è la cosa la cosa importante imparata da Joshua Foer, che conclude sempre affermando qualcosa che con le tecniche di memorizzazione ha a che fare in maniera solo tangenziale. “Le nostre vite sono la sommatoria delle nostre memorie. Quanto siamo disposti a perdere delle nostre già brevi esistenze, perdendoci nei nostri Blackberry, nei nostri iPhone, non prestando attenzione all’essere umano che è in noi, che ci sta parlando? O essendo così pigri da non essere disposti a elaborare profondamente quello che ci succede, quello che ci circonda? Se volete vivere una vita memorabile dovete essere quel genere di persona che si ricorda di ricordare”.

Ada Treves twitter @atrevesmoked

(7 ottobre 2013)