Rutu Modan, il nuovo segno di Israele

rutu modan“Quando ho iniziato io, in Israele praticamente non c’erano autori di fumetti… trovare lavoro era facile, non c’era nessuna competizione”. Ora non è più così, grazie anche a Rutu Modan, che prima di diventare una famosissima e pluripremiata autrice è stata una vera pioniera dei fumetti alternativi, in Israele.
Rutu Modan è cresciuta in una sorta di piccolo kibbutz di dipendenti all’interno del Sheba Medical Center, dove ha passato i primi dieci anni della propria vita. E dice subito che crescere entrando e uscendo liberamente da un ospedale l’ha condizionata: nelle sue storie compare sempre la morte, e il suo è certo definibile come black humor. Già a sei, sette anni riempiva quaderni di storie disegnate, a volte anche di fumetti, che i suoi genitori mostravano in giro orgogliosamente. Ma pensare che avrebbe potuto diventare la sua vita, la sua carriera, quello no, non era ovvio, perché per i suoi l’arte era qualcosa che si faceva nel tempo libero, magari dopo aver salvato delle vite. Ciononostante, la sua scelta di andare a studiare alla famosa Bezalel Academy incontrò solo molto stupore.
E lì fu determinante l’incontro con un professore, Michel Kichka, che è ora uno dei più noti disegnatori israeliani. Nato in Belgio ed emigrato in Israele nel ’74, Kichka alla prima lezione portò in aula fumetti di tutti i generi.
L’incontro con “Raw Magazine”– l’antologia di fumetti selezionati e pubblicati da Art Spiegelman e Francoise Mouly – è stato qualcosa che Rutu Modan definisce “un vero e proprio shock culturale”.
E aggiunge: “Dopo aver visto ‘Raw’ ho pensato che era esattamente quello che volevo fare. In un certo senso in quel momento tutto è andato al suo posto”. Tre mesi dopo stava pubblicando la sua prima striscia, poi, fra altre cose, vari esperimenti stilistici, un libro in collaborazione con Etgar Keret, l’edizione israeliana di Mad, e la fondazione del collettivo Actus Tragicus con, tra gli altri, Yirmi Pincus e Batia Kolton.
La fama, quella vera, internazionale, è arrivata nel 2007, con la pubblicazione di “Exit Wounds”, la prima storia lunga. In cui la cosa che più colpisce è la sua capacità di tradurre esperienze individuali, anche collegate alla sua vita, in storie dal sapore e dal valore universale.
Immagino ti facciano domande sul tuo essere autrice di fumetti in Israele. Pensi di avere caratteristiche specifiche, legate all’essere israeliana?
Non posso sapere cosa farei se non fossi me stessa. Mi chiedono che effetto fa essere un’autrice di fumetti donna. Ma non ho mai pensato che fare fumetti sia una professione maschile. Perché, poi?
Ma l’influenza delle tue origini è molto presente nei tuoi lavori, senti la responsabilità di raccontare Israele?
Quando scrivo una storia cerco di dimenticarmi dei lettori. Cerco sempre di essere onesta, e io amo Israele. Ma anche, a volte, io odio Israele, e penso che entrambe le cose traspaiano dai miei libri. Del resto non posso dedicare la mia vita a cercare di spiegare il conflitto israelo-palestinese agli europei o agli americani. Non lo capisco neppure io. Posso solo raccontare la verità, dal mio punto di vista. Ed è complicato.
Le tue storie sono sempre complesse, con molti piani di lettura, punti di vista differenti che si intrecciano.
È la vita che è complicata. La politica è complicata, tutto è complicato e io odio quando si guarda a una storia in un modo solo. Anche in una singola persona possono convivere punti di vista differenti, sentimenti confusi, contradditori. Io per esempio amo la mia famiglia, mi sono molto vicini. Ma anche, a volte, non li sopporto. C’è una grande ambivalenza. Come in tutti i rapporti personali.
Una famiglia che è molto presente anche nelle tue storie, ti hanno influenzata, evidentemente.
Sì, certo, e tutte le persone, le cose che incontro, che vedo, che leggo mi lasciano qualcosa. Quando ero molto giovane i grandi artisti hanno avuto una grandissima influenza sul mio lavoro. Art Spiegelman, e Daniel Clowes, Edward Gorey… ma cinema, e letteratura. Natalia Ginzburg, in particolare.
Natalia Ginzburg?
Sì certo, la scrittrice. Ha un modo di scrivere meraviglioso, e semplice. La leggo e la rileggo, da sempre. Non racconta cosa pensano le persone, racconta cosa fanno. La sua opera è unica, è davvero una delle mia principali fonti di ispirazione: i suoi personaggi non sono coraggiosi, intelligenti, belli, non sono eroi. Sono persone normali, semplici, e te li fa amare. Persone normali, non supereroi.
Come i tuoi personaggi, quindi?
Lo spero. Anche io cerco di raccontare storie. Storie della mia famiglia, storie dei miei amici. Le uso e le trasformo, le faccio diventare fiction. Posso raccontare segreti che non tirerei fuori in una biografia. Così ho molta più libertà: la vita vera è troppo complicata, ci sono troppi dettagli. Forse quando puoi condensare la vita arrivi ancora più vicino alla verità.
Dai l’impressione di amare molto il tuo lavoro. E di divertirti.
Mi piace, sì, mi piace moltissimo, sempre. Illustro anche libri per bambini, e tutto quello che è collegato al raccontare storie mi appassiona. Non saprei cosa altro potrei fare nella vita, sinceramente.
Ma insegni anche, no?
Sì, alla Bezalel, dove ho studiato. Ed è bellissimo tornarci. È stato il primo posto nella mia vita in cui ho avuto la sensazione di essere esattamente dove volevo essere. Mi ero sempre sentita un po’ fuori contesto, e quelli per me sono stati anni importanti. Ora per me conta altrettanto insegnare.
Come sono i tuoi studenti?
Sono un’altra generazione… non penso siano molto diversi, però sono migliori. Sono più professionali, più preparati, hanno competenze maggiori di quelle che avevamo noi. E sanno cosa sono i fumetti, non devono partire da zero. Anche il loro rapporto con gli insegnanti è molto diverso, ci sono meno confini. Ma forse questo è normale, anche nelle famiglie i rapporti fra le generazioni ora sono molto diversi. Mi pare che questi giovani abbiano bisogno di più incoraggiamento, di aiuto a trovare la propria strada.
E i colleghi?
È forse la parte migliore. Il mio lavoro è estremamente solitario, e almeno una volta alla settimana sono costretta a uscire dal mio studio, a vestirmi decentemente, a incontrare persone reali… ed è una grande opportunità di condivisione: con gli altri insegnanti si discute di arte, di design, siamo davvero una squadra.
La Bezalel sembra avere un effetto molto forte, che perdura sui suoi studenti molto dopo il diploma.
Sì, è una parte forte della mia identità. Come anche il mio essere ebrea, per la verità. Come ogni parte di me. Penso che un’artista debba usare ogni parte della propria identità. Bisogna essere sinceri nel proprio lavoro. Io posso mostrare il mio punto di vista, e condividerlo con gli altri, e questo rende le cose molto più interessanti. E se divento più me stessa, se scrivo storie più personali, se do tutto quello che posso, allora divento un’artista migliore.
(Il disegno è di Giorgio Albertini)

Ada Treves (Pagine Ebraiche novembre 2013)

(3 novembre 2013)