La sottile linea rossa

claudiovercelliVale la pena di ritornare ancora sulla questione del negazionismo, e della sua punibilità, posto che su queste pagine sono stati molti gli interventi succedutisi al riguardo. Fare la conta di chi si è espresso a favore della legge (nel concreto un emendamento ad un articolo del codice penale) e chi contro, a conti fatti, è poco più di un esercizio di scuola. Il timore, piuttosto, è che esauritasi la parabola, invero assai forzata, dell’iter parlamentare presso la commissione giustizia del Senato, possa subentrare una sorta di silenzio tombale. Fallito il tentativo, archiviato il problema. Non è così che la questione dovrebbe invece funzionare. Più istituzioni (tralasciamo i singoli) si sono espresse contro il modo, le forme e i contenuti, nonché le premesse, che avrebbero portato all’introduzione nell’articolo 414 del codice penale del negazionismo come reato, qualora le cose fossero andate altrimenti da come si sono concretamente svolte. La norma vigente punisce l’istigazione al delitto, che è cosa diversa dal non riconoscerne l’esistenza storica. Il contesto parlamentare, confuso e aggrovigliato, ha contato poi non poco nell’esito di cui sappiamo. I giuristi, o quanto meno parte di essi, a partire dall’Unione delle camere penali, hanno rilevato i rischi di una manifestazione di volontà, incorporata nella legislazione sanzionatoria, motivata da buoni propositi ma formulata in termini così generici (e generali) da rischiare la controproducenza. C’è chi si è soffermato sul potenziale profilo di incostituzionalità che il comma antinegazionista avrebbe potuto sollevare, incorporando in sé una violazione del principio di determinatezza del delitto, previsto dalla nostra Carta fondamentale all’articolo 25 (così ad esempio il costituzionalista e pubblicista Giuseppe Marazzita). Fino a che punto si sarebbe spinta la perseguibilità della negazione dei crimini? Nel caso delle Crociate, ad esempio, come ci si sarebbe dovuti regolare? In altre parole, chi avrebbe avuto il potere discrezionale di decidere che determinati «crimini di guerra, di genocidio o contro l’umanità» costituiscono fatti non solo indiscutibili dal punto di vista storico ma perseguibili se negati o ridimensionati nel discorso pubblico? Tanto più dal momento che il punto di vista storico pone senz’altro dei paletti sui fatti, cercando di ricostruirli, ma non accetta la premessa, in sé assai poco fondata, che la ricerca storica abbia obbligatoriamente un termine, ovvero una conclusione definitiva. La verità storica non coincide necessariamente con quella giuridica e quest’ultima non fonda un discorso etico. Altro ordine di questione, va da sé, è il giudizio morale che su certi eventi è non solo legittimo ma necessario formulare affinché la società trovi in ciò un forte elemento di coesione. Lo stesso Marazzita ha affermato che «violare il principio di determinatezza dei reati crea dunque un pericolo assai grave che consiste nel delegare al giudice, qualunque giudice, il compito di stabilire quali siano le vicende storiche di cui non è lecito discutere, pena la reclusione da uno a cinque anni». Fin troppo facile pensare che ciò darebbe la stura ad una sorta di lottizzazione del giudizio penale, per cui la magistratura maggiormente sensibile alle istanze politiche e culturali della sinistra si concentrerebbe sui crimini nazifascisti, quella aperta alle istanze di destra sui delitti dei comunisti e così via. In realtà quello che manca ai nostri codici, in casi come questo, è la capacità di definire con sufficiente correttezza, ovvero al di là diogni ragionevole dubbio o ombra di sospetto di una qualche vocazione persecutoria,dove finisca l’opinione e dove inizi la diffamazione, raccogliendo e assecondando un giudizio di buon senso (che non sia però solo un giudizio di senso comune). Infatti, ciò che viene costantemente messo in tensione, e valicato, dall’agire negazionista è la sottile linea rossa che divide l’una dall’altra. La qual cosa, oltre a costituire una voluta provocazione e una deliberata offesa, pone in tensione non solo le coscienze democratiche ma anche la pazienza dei tanti. In altre parole, il diffamatore usa il legittimo spazio della libertà di espressione per fare incursioni permanenti. Dopo di che, la sua forza non sta in ciò che dice ma nel modo in cui lo fa, usando con perizia la dilatazione dei luoghi e delle occasioni, soprattutto virtuali, di dialogo, di confronto nonché anche di scontro. Non si tratta di una questione secondaria poiché la nozione di «libertà di espressione» riconduce, da subito, non solo a quanto può essere affermato ma al modo in cui lo si fa e al dove. Il contesto, in altre parole, è qualcosa di ben più rilevante del costituire un semplice contenitore di idee (o deliri) facilmente isolabili. E questo contesto, oltre ad essere il Web, per sua natura non facilmente “contenibile”, come invece possono esserlo altrui luoghi di discussione, è dato dal mutamento degli equilibri e dei ruoli culturali in società che, volenti o nolenti, si caratterizzano sia per un marcato multietnicismo, sia per la netta riduzione del ruolo regolativo degli Stati. Cosa significa tutto ciò? Concretamente, che nella medesima società coesistono atteggiamenti diversi rispetto al passato poiché diverso è il modo di concepire il rapporto con esso da parte di gruppi che hanno origini distinte. Piaccia o meno. Nel medesimo tempo, lo Stato – e con esso tutti i suoi apparati –, stanno perdendo di peso nelle trasformazioni, sempre più pronunciate, che coinvolgono le società medesime. In una parola, l’una e l’altro sono i prodotti di ciò che chiamiamo globalizzazione. Ancora una volta, che ci piaccia o meno, poiché le cose accadono spesso senza che ad esse si possa ovviare con la sola forza dellavolontà. Il rimando alla sfera penale, che dovrebbe sanzionare le condotte devianti, se non delittuose, deve quindi confrontarsi con questi aspetti, per nulla secondari, dello scenario dentro il quale anche i discorsi sulla memoria, e della storia, entrano obbligatoriamente. La richiesta che da più parti viene ripetuta di perseguire la loro offesa per il mezzo di un processo, deve pertanto necessariamente coniugarsi con tale quadro di incertezze. Non è una facile scorciatoia per non affrontare la sostanza del problema bensì la consapevolezza, imprescindibile, che è illusorio pensare di affidare al giudice il compito di «mettere ordine» se si ha a che fare con un panorama dove invece l’incertezza, insieme ad una qualche confusione, tendono a divenire il dato prevalente. Il processo penale non assolve a questa funzione, semmai rischiando di ingenerare un’eterogenesi dei fini, poiché la sentenza dovrebbe garantire quello che invece non le compete. Si rischia non solo di sancire l’indiscutibilità (nel senso peggiore del termine) di certi aspetti del passato ma di credere che da ciò possa derivare una maggiore libertà quando invece vale l’esatto opposto. Deve essere chiaro che chiamando in giudizio il negazionismo non si pone ad oggetto le condotte passate, quelle delittuose, ma il modo in cui esse sono raccolte e raccontate oggi. La sanzione, infatti, verterebbe su quest’ultimo aspetto e non certo sul primo. Anche quando entrano in gioco la deliberata mistificazione, la voluta manipolazione, la consapevole falsificazione. Sempre lì si rimane, o si ritorna. Nei paesi in cui vige una legislazione antinegazionista «i processi penali, allora, divengono parte costitutiva dei processi di memoria, ed anzi vengono chiamati a produrre una verità che possa sfuggire alla dialettica delle diverse ricostruzioni storiche […nonché] a porre rimedio all’appannarsi di un consenso e di una narrazione comune che non sono solo storici, ma valoriali e politici», afferma la studiosa di diritto penale Emanuela Fronza. Ne deriva che «al diritto e al processo si chiede di stabilire e riaffermare gli eventi e i valori su cui si fondano le società democratiche attraverso la sentenza che fissa, ferma il tempo, passando in giudicato». Ne consegue così un conflitto, laddove le società moderne non possono essere basate sul relativismo valoriale (l’equivalenza morale di condotte tra di loro palesemente contraddittorie se non antitetiche) ma neanche sulla compressione del pluralismo culturale nella formazione del giudizio. Se quest’ultimo non è licenza di assassinio della memoria non di meno non può tradursi nella predominanza penale del diritto assoluto di un solo discorso. Quand’anche esso sia fondamentale per la collettività, non meno che incontrovertibile nei suoi contenuti. Poiché altrimenti si costituirebbe da subito una competizione e un conflitto tra il valore delle differenze (di opinione e di giudizio) e la tutela di altri diritti, quali quelli che hanno a che fare con la dignità umana. Un risultato, quest’ultimo, che va assolutamente evitato. Non è la mera questione, peraltro di per sé comunque decisiva, della libertà di manifestazione delle opinioni, architrave di una società liberaldemocratica, ma di un’inedita questione, quella del«diritto alla verità», che si incontra, conflittualmente, con le condizioni date. Al momento non si può pensare che sia il tribunale, con un comma aggiuntivo ad un articolo del codice penale, a potere soddisfare questo bisogno. Lo spazio del negazionismo è quello offertogli dall’incertezza. Non rispetto al passato ma riguardo al presente. È in quell’ambito che si insinua, costruendo il suo velenoso percorso. Come rispondere ai dati di contesto è una questione tanto complicata quanto imprescindibile. Il mero percorso penale non ne può costituire la facile scorciatoia benché sia oramai evidente che la questione della sua sanzione, morale e civile prima di tutto, sia all’ordine del giorno.

Claudio Vercelli

(3 novembre 2013)