Identità: Henry Baruk

henri barukNel 1958 l’allora Primo ministro dello Stato di Israele, David Ben Gurion si è trovato a gestire il fatto che la nozione stessa di identità ebraica era diventata in Israele oggetto di una legislazione che avrebbe avuto implicazioni pratiche cruciali. A cinquanta “Saggi di Israele” Ben Gurion pose la domanda divenuta il titolo del lavoro del professor Eliezer Ben Rafael, che in un e-book intitolato “Cosa significa essere ebreo?” – scaricabile dai siti www.proedieditore.it e www.hansjonas.it – ha messo in luce per la prima volta in Italia quella discussione sistematica sull’identità ebraica. Ogni domenica, sul nostro notiziario quotidiano e sul portale www.moked.it, troverete le loro risposte.

Henry Baruk (1897-1999)

Primario dell’ospedale psichiatrico di Charenton dal 1931, è nominato professore alla Sorbona nel 1946. Nel 1957 diventa presidente della Società francese di neurologia. Conduce ricerche sulla medicina nella Bibbia ed è attivo nella comunità ebraica di Francia nonché membro dell’Associazione degli amici dell’università ebraica di Gerusalemme. Tra i suoi lavori figurano Psychiatrie morale, experimentale, individuelle et sociale: haines et réactions de culpabilité (1945) e Civilization hébraique et science de l’homme (1961).

Parigi,

L’inchiesta avviata dal governo dello Stato di Israele per una definizione precisa di che cosa è un ebreo è di notevole interesse. Il popolo ebraico, infatti, resta un enigma per gli altri popoli e talvolta anche per se stesso.

I. La civiltà dell’ebraismo

La difficoltà deriva dal fatto che gli esseri umani sono provvisti di facoltà razionali il cui uso tende il più delle volte a ridurre la realtà a idee semplici e a concetti chiari e intelligibili. La natura il più delle volte è irriducibile a una sola idea e il più delle volte è complessa. Abbiamo l’abitudine, per esempio, di distinguere il popolo, la nazionalità, la religione. Il popolo indica le famiglie e il gruppo di origine, la nazionalità, il gruppo politico e il territorio, la religione le credenze intime. Il popolo francese, per esempio, è formato da gruppi diversi (celti, latini, germani, ecc.) che abitano un territorio definito e appartengono a religioni diverse. Quasi ovunque la religione va al di là dei confini del popolo e della nazione per creare legami universali. Ma per il popolo ebraico è un’altra cosa. Il popolo ebraico non può ridursi a una delle tre entità semplificate o, più esattamente, è la sintesi di tutte e tre. Il popolo ebraico è al contempo un popolo, una nazione e una religione, ma non può essere definito da uno solo dei tre attributi. Alcuni, infatti, credono ancora che il popolo ebraico sia definito da una razza particolare nell’accezione biologica del termine. La storia non può ammettere questo punto di vista. Se accettiamo, come ciò è un classico, che il padre del popolo ebraico è Giacobbe, come potremmo capire che dei due figli di Isacco e Rebecca soltanto Giacobbe è considerato ebreo e che Esaù, suo fratello gemello, è considerato non ebreo, e persino il rappresentante dei popoli nemici degli ebrei (Edom). Giacobbe ed Esaù sono tuttavia figli dello stesso 6. Il documento non presenta alcuna indicazione né della data né dell’intestazione. 102 padre e della stessa madre, ma Giacobbe ha fede nel Dio di Abramo e di Isacco e si attiene al modo di vivere dei Patriarchi, mentre Esaù si separa nettamente da quella fede e da quel modo di vivere, preferendo la caccia, la brutalità e non vedendo alcun senso né alcun significato nella vita umana. Il suo atteggiamento, le sue concezioni, il suo comportamento, non sono quelli di un ebreo. Al contrario, sappiamo che lo stesso re David discendeva da Rut, cioè da una moabita. Sul piano razziale propriamente detto Rut era una straniera per il popolo ebraico ma il suo affetto per la suocera, la sua devozione, il suo cuore, il suo attaccamento a una persona nella sventura era tale da essere considerata ebrea. Rut rappresenta in qualche modo un caso particolare di gher tzedek, vale a dire, qualcuno che diventa membro del popolo ebraico per l’attaccamento indefettibile ed eroico ai valori ebraici, non solo per le sue convinzioni ma soprattutto per i suoi atti. Potremmo moltiplicare esempi analoghi e ricordare anche la conversione all’ebraismo dei Kazari in Russia, ecc. Ciononostante, è molto difficile per un non ebreo diventare ebreo. Nelle altre religioni è sufficiente aderire a un credo per diventare ipso facto membro di una nuova religione. Si può, per esempio, diventare molto facilmente cristiani e tutto avviene come se il cristianesimo facilitasse e ricercasse con zelo le conversioni per aumentare il numero dei suoi aderenti. Per l’ebraismo è una cosa del tutto diversa. Non solo non cerca di convertire gli altri popoli e nel suo insieme si è sempre tenuto lontano dalle conversioni forzate così frequenti nella storia del cristianesimo e dell’islamismo, ma l’ebraismo pone grandi difficoltà alla conversione. La legge ebraica non si limita ad accettare o anche a proclamare un dogma, ma consiste soprattutto nell’applicazione nei minimi dettagli di tutto un modo di vivere. Per un ebreo, gli atti hanno più valore delle affermazioni o, più esattamente, solo gli atti rivelano la fede. I pensieri e la loro attuazione pratica sono una cosa sola e non possono essere dissociati perché l’Unità è la declinazione della vita dell’ebreo. In questo quadro, è perciò estremamente difficile diventare ebreo. Ciò richiede una preparazione molto lunga, studi estremamente approfonditi e un esercizio profondo, necessario perché la personalità prenda pieghe irriducibili nel pensiero e nel modo di vivere. Certo, autori celebri e venerati dell’ebraismo ci sono ammirevolmente riusciti, come Onkelos, di origine greca, che ha tradotto la Torah in aramaico e resta un’autorità venerata dal popolo ebraico. La consacrazione però deriva soltanto dal successo nel formare una persona veramente ebrea nelle sue minime abitudini e nei suoi minimi gesti. Si pensa che solo persone animate da un’intensa fede e da una tenacia senza pari possono arrivare a un tale risultato. Un semplice interesse per l’ebraismo e qualche considerazione filosofica non sono sufficienti. Occorre anche che il soggetto sia talmente integrato nel popolo ebraico, che sia pronto ad accettare le persecuzioni, capace di tollerare e sopportare le debolezze dei suoi fratelli e pronto a non giudicarle. Tutto ciò dimostra che l’ebraismo è molto più di una religione nel significato che la parola ha assunto nel mondo, cioè di un legame chiuso da un credo comune, ma costituisce una vera cellula organica in cui l’ambito spirituale e corporale è fuso in una unità poiché la fede fa tutt’uno con il popolo e anche con la persona fisica. Non è con un inutile simbolo che l’Alleanza di Abramo è incisa nella carne, perché, come si dice spesso, l’ebreo pensa e agisce con tutti i suoi organi ed è inutile dissociare lo spirituale dal corporale. Si capisce che la cellula organica rappresentata dal popolo ebraico si basa in gran parte sulla famiglia e sull’eredità culturale. È infatti nella famiglia che si formano le abitudini irriducibili e inveterate che potranno in seguito resistere alle forze esterne, al contagio, alle minacce, alle persecuzioni e alle seduzioni, talvolta ancora più pericolose per la distruzione del popolo, cioè l’assimilazione. La famiglia e l’eredità tuttavia non sono tutto, perché molti ebrei figli di genitori ebrei sono scomparsi come tali per le conversioni e per l’assimilazione. Questa è comunque lenta e richiede talvolta molte generazioni perché le abitudini iscritte ereditariamente nell’inconscio ritornino, come (per) i marrani, come nel recente caso di Simone Weil che abbiamo studiato, o come nei numerosi casi di ebrei moderni assimilati in Occidente nei quali la cultura occidentale è entrata in conflitto con un vecchio fondo inconscio di tradizione ebraica per produrre sia manifestazioni ibride come nel caso dell’opera di Freud, sia il richiamo straordinario e maestoso con le tecniche più moderne del fondo umano e patetico dell’anima ebraica come hanno fatto due ammirevoli artisti e potenti filosofi dell’umanità dei nostri tempi, Charlie Chaplin e Marc Chagall. Il carattere organico in cui la spiritualità e la persona fisica sono fuse in un’unità, come la fede e il popolo sono ugualmente fusi in un’unità, si spiega con la speciale costituzione, sin dall’inizio, dell’ebraismo e del popolo ebraico per resistere e per durare fino alla fine dei tempi. Questa organizzazione di resistenza è fondamentale. I popoli, le nazioni e anche le religioni subiscono in generale evoluzioni in fatto di crescita, di successo, di declino e di morte come l’individuo. Generalmente è il pieno successo che costituisce il fattore più potente del declino e poi della morte. Questo successo l’ebraismo non lo ha conosciuto affatto. Esso ha conosciuto soltanto la lotta aspra e incessante, e la lotta gli ha garantito una straordinaria perennità, perennità tanto più sorprendente in quanto è sopravvissuta ai suoi più potenti e terribili nemici che soccombono tutti poco a poco nei vari secoli. La storia da sola mostra la profondità della legge ebraica, esemplificata dalla storia dei Maccabei, in virtù della quale i forti e i grandi dominatori oppressivi alla fine soccombono di fronte ai più deboli di loro e di fronte un Principio di Giustizia che inverte i ruoli e ristabilisce l’equilibrio, cioè davanti al Dio di Israele, al Dio di Abramo, di Isacco di Giacobbe e di Mosè! La cellula organica del popolo ebraico può durare soltanto assorbendo con molta precauzione gli elementi stranieri, come un corpo che vive può assorbire alimenti esterni soltanto trasformandoli e unendoli alla sua propria sostanza. Ciò spiega perché l’organismo ebraico cerca di resistere e di mantenersi invece che di espandersi. […] Un corpo vivente, come il popolo ebraico, può vivere soltanto con la sua fede e conservando la sua civiltà. La civiltà greca così sottile, così raffinata è morta per il suo carattere troppo intellettualistico e per l’assenza di una fede sufficientemente forte. La fede ebraica ha sostenuto il popolo ebraico durante la più crudele dispersione e i più spaventosi tentativi di sterminio. Tuttavia che cos’è questa fede ebraica? I cristiani tendono a considerare l’ebraismo un semplice insieme di pratiche formali che costituiscono una specie di replica ridotta di un grande movimento religioso antico di cui il cristianesimo avrebbe segnato il compimento. Tale concezione nega la realtà e lo scopo dell’ebraismo. Questo non cerca il successo della propaganda né l’estensione in superficie ma l’approfondimento della sua civiltà per la sua realizzazione in terra nei minimi dettagli. È così che la fede ebraica ha lavorato senza sosta in ogni secolo per l’applicazione pratica e concreta dei principi della Torah. Questo lavoro enorme e positivo ha portato a trasformare la fede in scienza o piuttosto a fondere la legge e la scienza in un’unità. In tutti i secoli, il metodo dei Talmudisti, dei sapienti del Midrash, dei Saggi di Israele parte da un metodo deduttivo estremamente rigoroso dei testi sacri per l’elaborazione di dati pratici confrontati con il metodo sperimentale. Si elabora perciò un’intera civiltà che poggia su una base estremamente solida e approfondita. In un celebre lavoro, Bergson, anch’egli di origine ebraica, che ignorava l’ebraismo ed era attratto dal cristianesimo, ha contrapposto ciò che chiamava le “religioni chiuse”, come l’ebraismo, alle “religioni aperte”, come il cristianesimo, nelle quali il profetismo prevaleva sulla legge, sulla Torah iniziale. Ma il profetismo nella Torah portò poco a poco a un ideale sentimentale, relegato nel cielo, che in seguito si separava dai dati concreti dell’organizzazione della vita umana sulla terra. Perciò la vita in Occidente si è divisa in due ambiti distinti, la fede e la scienza, la religione e il potere politico. Tale dualismo, però, dopo aver ottenuto successi straordinari, comincia adesso a rendersi conto di una crisi assai grave; la scienza, privata di ogni elemento di fede, rischia di diventare inumana e comincia già a penetrare gravemente la fede per distruggerla. Lo slancio sentimentale e idealista non è sufficiente per resistere. Rischia di essere distrutto dall’interno ed è facile adesso constatare, soprattutto in Occidente, la marcia rapidamente crescente del neopaganesimo moderno nella distruzione interna della fede e dei valori cristiani già notevolmente minacciati. […] Senza tentare, come ha fatto Maimonide, di riassumere l’ebraismo in un certo numero di tesi, ci sembra tuttavia necessario sottolineare i punti più caratteristici e più specifici della civiltà ebraica per mostrare non solo ciò che ha dato all’umanità ma anche ciò che deve realizzare nell’avvenire, perché lo scopo di vita costituisce il fermento essenziale che fa vivere sia gli individui che i popoli.

1. L’abolizione dei sacrifici umani, la responsabilità morale e lo tzedek

A.) Sin dai tempi di Abramo, il popolo ebraico ha vietato i sacrifici umani e ha stabilito i principi della responsabilità umana e della giustizia. Ricorderemo che una propensione antica e inveterata dell’umanità consiste nel far pagare agli innocenti i reati dei colpevoli. Nella concezione morale primitiva, sembra che i crimini e le 105 colpe richiamino sventura, per neutralizzarli basta far pagare e sacrificare qualcuno, una qualunque vittima, offerta in qualche modo in olocausto a una divinità che per ogni colpa esige un pagamento, altrimenti detto una redenzione. Sin da Abramo, l’animale è stato sostituito all’uomo per i sacrifici. L’atto compiuto da Abramo si è esteso con l’importanza dei sacrifici animali e, in particolare, dei sacrifici per il peccato previsti nella legge mosaica, come pure delle misure simboliche come il sa’ir le-azazel e il tashlikh. Dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, l’ulteriore evoluzione ha portato alla soppressione dei sacrifici di animali che ai tempi nostri molti considerano superati. In realtà, i nostri studi ci hanno dimostrato che l’animale protegge l’uomo e chi si indigna di più dei sacrifici di animali è insensibile ai sacrifici umani. È già su questo problema che è sorto il conflitto tra il Faraone e Mosè: il primo considerava i sacrifici di animali un abominio, essendo l’animale sacro, ma rimaneva indifferente ai sacrifici umani. Mosè considera invece il sacrificio di un animale un omaggio a Dio che garantisce il rispetto sacro della persona umana. Tale conflitto resta sempre attuale ai nostri giorni, lo abbiamo visto, negli ultimi anni, nelle discussioni sulla sperimentazione biologica nell’uomo nelle diverse accademie dei paesi civili, discussioni che hanno dimostrato che l’odierna umanità, lungi dall’essere in anticipo rispetto all’epoca del tempio di Gerusalemme, è ancora molto in ritardo su questo periodo e ancora caratterizzata molto più di quanto si possa pensare, dagli abominî del paganesimo e dell’Avodah Zarah. Se l’idea di sacrificio riparatore (almeno delle colpe involontarie), come è il caso nell’ebraismo, è soddisfatta esclusivamente dal sacrificio di animali (che l’umanità del resto abbatte in massa per nutrirsi), escludendo in modo assoluto qualsiasi sacrificio umano e qualsiasi redenzione attraverso un sacrificio umano, questo stadio rappresenterebbe un enorme progresso per l’umanità del XX secolo, ancora impregnata dell’idea pagana della redenzione con il sacrificio umano, idea che si è concretizzata nei roghi del Medioevo e con gli olocausti umani di Hitler. […] B.) La negazione della coscienza morale implica non soltanto il terrificante aumento della criminologia ma anche la cattiva organizzazione della giustizia. Si sa che la proclamazione del Decalogo sul Sinai è stata preceduta dall’esposizione dei principi dell’organizzazione della giustizia da giudici imparziali (anshei hail, yerei elohim, anshei emet, sonei b’) uomini coraggiosi che temono Dio, uomini meritevoli che detestano il profitto. La giustizia presuppone la fede nella verità, per difendere l’innocente contro le false testimonianze, le spregevoli astuzie dei veri colpevoli che addossano le loro colpe a degli innocenti e scaricano su vittime innocenti la rivolta contro i loro abusi, contro il loro sfruttamento degli esseri umani. L’amore per la vera giustizia rappresenta la base dell’ebraismo. Alcuni hanno creduto di dover contrapporre la giustizia all’amore e hanno voluto opporre l’ebraismo rigoroso ad altre confessioni dominate dall’amore caritatevole. Questo è un enorme errore. La giustizia e l’amore fanno tutt’uno, è lo tzedek ebraico. Senza amore non può esserci giustizia, è l’amore che ha ispirato Abramo nella sua discussione con Dio su Sodoma e Gomorra, nella sua accoglienza dei tre melechim, è l’amore dell’umanità che ispira la Torah che ha proclamato “amerai il prossimo tuo come te stesso”. È l’amore intenso che ispira la Mishnah e il Talmud nel Sanhedrin quando essa organizza un tribunale equo e che ricorda che se all’inizio dell’umanità è stato creato un solo uomo, è per imparare che colui che distrugge una sola anima umana, è come se avesse distrutto il mondo intero, e che colui che salva anche una sola anima umana è come se avesse salvato il mondo intero. Una sola ingiustizia, un solo innocente sacrificato alla ragione di Stato, cioè a interessi inconfessabili, può distruggere una nazione intera. È la tesi difesa con le parole e con tutte le sue azioni da Clemenceau all’epoca dell’affare Dreyfus. Clemenceau, l’ultimo dei profeti francesi, che in una celebre circolare indirizzata a tutti i prefetti di Francia proclamava che il fatto che una sola persona potesse essere trattenuta o imprigionata ingiustamente e indebitamente in tutta la Francia, gli era insopportabile. È lo tzedek, questo tzedek ispirato al mondo da Abramo, questo tzedek che dai tempi di Noè, Abramo e i grandi Ispirati ebraici protegge l’umanità contro la sua distruzione, è questo Tzedek che anima la legge giuridica e la legge penale ebraica. Questa legge è basata sull’esame delle testimonianze, sull’esame dei testimoni, degli edim, esame rigoroso contro il falso testimone punito dalla legge del Taglione per evitare la calunnia, le voci infondate che mettono in gioco il sangue di un innocente (dam naqi). L’organizzazione di un tribunale imparziale si contrappone al metodo dei tribunali inquisitoriali istituiti, come ha dimostrato il professor Garraud nel suo celebre Traité de droit criminel, da una parte dall’Impero Romano, dall’altra dal Tribunale dell’Inquisizione del Medioevo. Per questi la giustizia si basa sull’arresto preventivo del sospetto, e sul fatto di accettare le denunce. Un metodo, ahimé, ancora pienamente in funzione anche nelle nazioni considerate più civili. Non c’è civiltà senza equa giustizia. L’assenza di una giustizia imparziale e la tolleranza delle ingiustizie per le cosiddette esigenze del potere è il criterio più saldo della barbarie. Nel mondo moderno, il diritto romano continua ancora a introdurre una giustizia dominata da Cesare, cioè iniqua. Solo gli assai rari paesi che hanno attinto l’organizzazione del loro diritto dalla fonte viva della Bibbia e del diritto ebraico hanno una vera giustizia. Constatazioni che dimostrano che la civiltà ebraica è ben lungi dall’essere realizzata dalle religioni che da questa tuttavia hanno origine. 2. La giustizia e il servizio di Dio contrapposto all’Avodah Zarah La giustizia e la sua organizzazione si basano sulla fede nella Verità e sulla responsabilità. Se mettiamo sullo stesso piano il colpevole e la vittima, il lupo e l’agnello, andremo presto in soccorso del lupo oppressore per schiacciare ancora di più l’agnello e non solo a opprimere ma a disonorare la vittima innocente. È il principio che ancora domina la politica delle nazioni cosiddette civili ed è per questa ragione che il mondo e la pace poggiano soltanto sulla forza, la violenza e la rapina, cioè non c’è pace perché la pace si basa sulla vera giustizia, il solo mezzo per scoraggiare in anticipo gli oppressori, i lupi insaziabili e gli ipocriti che uccidono l’innocente 107 nascondendosi dietro una falsa carità, versando false lacrime per coprire i loro abominevoli misfatti! La responsabilità, il giudizio del bene e del male, la constatazione di un Giudice superiore e incorruttibile, insensibile al corruttore e difensore dell’innocente, ecco un principio che l’umanità teme e non può tollerare. L’indulgenza nei confronti dei profittatori indegni che vivono dello sfruttamento dei loro fratelli e dei sostenitori della morale romana homo homini lupus, ecco ciò che in fondo auspica una potente corrente che discredita in anticipo ogni tentativo di reale purificazione e che, per meglio screditarlo, lo copre di obbrobrio e di tutte le accuse. Qualsiasi sforzo per migliorare lo stato morale dell’umanità suscita un odio atroce e il popolo ebraico ne sa qualcosa. Come sottolineato da un altro profeta francese, Charles Péguy, ardente difensore di Dreyfus, l’intensità dell’odio è generalmente proporzionale al valore del messaggio della vittima. I grandi criminali dell’umanità, i veri criminali, sono, in generale, non solo tollerati ma coperti, onorati e i loro misfatti molto presto dimenticati. L’uomo però non perdona mai la superiorità intellettuale e ancora meno il valore morale. Ecco il fondamento essenziale della psicologia, della sociologia e della politica. Per evitare questa responsabilità e per rifiutare l’equo giudizio, cioè per rifiutare il Dio di Israele, l’umanità sa inventare filosofie negative e distruttrici. Nell’antichità ha inventato la Nemesi greca, cioè una fatalità inesorabile che spinge gli uomini alle peggiori catastrofi e ai peggiori crimini qualunque cosa facciano. Questa filosofia pessimista e disperata, quella di Edipo e Ifigenia, si contrapponeva alla fede ottimista degli ebrei che è dominata da quella di un Dio che ristabilisce la giustizia e che giudica secondo gli atti. La prima non trova più alcuno scopo nella vita e si abbandona al destino, all’infame superstizione di cercare l’avvenire negli astri, nell’evocazione dei morti e disprezza la vita umana, come gli antichi romani che si suicidavano per mancanza di uno scopo nella vita. Questa è la concezione degli Akum, ed è questa l’orribile Avodah Zarah, cioè il servizio degli dei stranieri, degli idoli che esigono sacrifici umani. Servire gli idoli non dà valore alla vita umana, disprezza la prudenza e l’igiene (zehirut) e lascia la morte prevalere sulla vita, perché nella morte vede una liberazione dalla sofferenza. Essa considera perciò giustificato il sacrificio di alcuni a beneficio di tutti. Un’orrenda concezione che rivive con intensità nel neopaganesimo moderno, con il ritorno dell’eutanasia, della sperimentazione medica sull’uomo, della sperimentazione medica criminale dei nazisti che ogni giorno si diffonde nello spirito dei cosiddetti paesi civili, pericolo stigmatizzato con forza dal nostro amico Dvorjetzki, valente rappresentante in questo ambito della vera tradizione ebraica, che difende la vita e l’umanità e che basa la medicina sull’amore del prossimo, e, infine, il fatalismo, che si esprime già nei termini disillusi di Esaù, che simbolizza l’atteggiamento di Edom e dei popoli nemici degli ebrei, fatalismo spesso, del resto, espressione di pura pigrizia, di vigliaccheria e di abbandono, come i romani decadenti, come quella plebaglia che si abbandona al panem et circenses che vediamo ritornare e moltiplicarsi nelle società moderne, segno di grave disgregazione della civiltà occidentale, segno, prima di tutto, dello sviluppo dell’anima servile. Colui che desiderava restare schiavo senza la Torah doveva avere l’orecchio perforato affinché tale scelta lo stigmatizzasse. La stessa cosa avviene tra i popoli decadenti che hanno la mentalità dello schiavo, mentalità che quasi sempre nasconde orgoglio e aggressività. Ai giorni nostri, la mentalità dell’Avodah Zarah e degli idolatri è sempre più viva. Gli idoli non sono più Baal e Astarte ma si chiamano Stato, sangue, razza, potere e persino medicina cui alcuni sono pronti a sacrificare degli innocenti, dimenticando che la medicina è fatta per l’uomo e non l’uomo per la medicina come abbiamo ripetuto con forza con i nostri amici, i dottori Dvorjetzki e Krierger (di Tel Aviv) nel Proclama del Congresso dei medici ebrei di Gerusalemme. In alcuni volumi di psichiatria moderna e, in particolare, tra alcuni discepoli di Heidegger e dell’esistenzialismo moderno, ritroviamo l’apologia dei sacrifici umani, posti, con una mostruosa aberrazione, sotto la protezione di Abramo, della Bibbia e del cristianesimo. Tale protezione è una vera impostura. Troveremo nel nostro recente Traité de psychiatrie, nella parte intitolata “Humanisme Psychiatrique”, tutti i dettagli al riguardo nonché la critica severa di tali concezioni. Da mille anni la nozione dei sacrifici umani è sempre persistita e il trionfo del monoteismo è stato solo apparente. In realtà, ciò che ha trionfato è un compromesso tra il monoteismo e il paganesimo e per questa ragione il verme è rimasto nel frutto e ricomincia a divorarlo. Davanti a questi fatti evidenti, si avverte il pericolo di divinizzare ogni essere umano, qualunque esso sia, pericolo che corrompe l’uomo con l’orgoglio e il dispotismo e che è incompatibile con la purezza del monoteismo. Ricordiamoci l’episodio delle acque di Merivah in cui Mosè, esasperato dalle lagnanze del popolo, ha finito per attribuire a se stesso e ad Aronne il miracolo di fare uscire l’acqua dalla roccia. Per questa debolezza, la sola che non gli fu perdonata, gli fu negato senza appello di entrare nella Terra Promessa. Ecco il vero monoteismo, il monoteismo senza compromessi, in cui l’uomo collabora con Dio ma non può mai eguagliarlo, in cui nessun essere umano può essere adorato, in cui le folle non si prosternano nei grandiosi mausolei e nei monumenti ai morti in cui le folle pagane, servili e vili idolatrano dittatori e uomini-dio […]. 3. Lo shabbath Un gran numero di civiltà si basa sulla glorificazione e sulla santificazione del lavoro e della produzione cui sono immolati tanti esseri umani. Fu così nella civiltà dei faraoni in cui molti schiavi erano sacrificati per la costruzione di città e soprattutto di grandi tombe. È ancora così per molte civiltà moderne. Le costruzioni di pietra vengono prima del valore dell’essere umano. Probabilmente è in ricordo di e in reazione a tale concezione che l’ebraismo non ama le tombe maestose e al posto di superbe costruzioni di pietra, che sono soltanto vestigia morte, ha preferito piuttosto lasciare una costruzione eternamente viva e vibrante di umanità, il libro dell’umanità, la Bibbia. Speriamo che il popolo ebraico resti fedele a questa nobile 109 tradizione e non si prosterni imitando l’idolatria delle pietre. Il rispetto del valore umano è iscritto principalmente nell’istituzione dello shabbath. Rispetto a popoli antichi e moderni che sacrificano l’uomo alla produzione e ne glorificano lo sfruttamento, la civiltà ebraica santifica invece il riposo del settimo giorno. Essa non nega, tutt’altro, il valore del lavoro, profondamente stimato, ma sa che la natura si basa sulle leggi di alternanza del lavoro e del riposo e che tali leggi non possono essere violate senza mettere in pericolo la vita delle creature. Il riposo del settimo giorno è affermato e ribadito ovunque e tra le prescrizioni è una delle più importanti, sia nel Decalogo che durante tutta la vita dell’uomo. Il popolo ebraico è persino definito il popolo guardiano dello shabbath (am shomer shabbath). Senza shabbath non ci sarebbe civiltà ebraica. Lo shabbath ricorda la Creazione del Mondo, dal momento che Dio si è riposato il settimo giorno, ma lo shabbath è anche il simbolo e la garanzia della libertà dell’uomo e di una organizzazione sociale umana. Lo shabbath è la garanzia della libertà. L’uomo che non si riposa il settimo giorno è uno schiavo, schiavo di un lavoro che lo soggioga come una bestia da soma. Non ha più neanche la facoltà di pensare, di ridiventare uomo e, secondo la magnifica espressione ebraica di “riprendere anima” (lehinafesh) […]. Per essere efficace lo shabbath deve però essere generale. Deve consistere in una prescrizione sociale. L’interruzione dei trasporti e della circolazione delle automobili (fatta eccezione, per esempio, per le urgenze e le cure dei malati) deve essere effettiva. È a questa condizione che lo shabbath si distinguerà veramente dai giorni normali (hol), che assumerà il proprio carattere veramente sacro e che determinerà quel benessere fisico e morale che l’uomo sente nella calma, nella pace, nell’elevazione spirituale. È per questa ragione che lo shabbath merita veramente di essere chiamato delizia dello shabbath. Lo shabbath è anche la garanzia di una società umana poiché è scritto “perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te, il tuo bue e il tuo asino, perché ti ricordi che sei stato schiavo nel paese di Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso, perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato”.7 Il giorno dello shabbath mette perciò su un piano di parità l’uomo, la sua famiglia, i suoi figli, i suoi servi, persino i suoi animali domestici. A questo proposito, d’altronde, l’osservazione della natura ci insegna che il settenario rappresenta una legge naturale essenziale. La medicina è stata obbligata a sostituire il settenario alla settimana di otto giorni, perché è con il settenario che contiamo le fasi del ciclo mestruale, quelle di molte malattie ecc. Il riposo del sabato o shabbath ha perciò il valore di accordo dell’uomo con la natura, dell’uomo con Dio, dell’intesa dell’uomo con i suoi simili e del rispetto delle creature, e il valore anche di una società veramente fraterna e democratica. Potremmo dire che senza shabbath non c’è vera società umana ma soltanto una società di schiavi e di oppressori! L’alternanza del lavoro e del riposo si osserva anche nell’anno sabbatico (Shenat Ha-shemitah) in cui la terra riposa, perché il riposo favorisce il rinnovamento ed evita l’impoverimento del terreno e in questo anno si riposano anche i creditori e tutti i mezzi di pressione dell’uomo sull’uomo. Gli eruditi e i Saggi della Mishnah e del Talmud hanno scritto molto sulla definizione del lavoro e del riposo. Non riprenderemo in questa sede l’enumerazione delle 39 varietà di lavoro, di melacha, ispirate ai lavori del mishkan e proibite durante lo shabbath. Sul piano della psicofisiologia moderna, da certi punti di vista, potremmo dire che le proibizioni mirano in generale al riposo dall’azione, cioè al riposo dalla volontà. Sappiamo, infatti, da P. Janet8 che ciò che più consuma la forza nervosa è l’azione, cioè l’atto che necessita una tensione psicologica. La vita meditativa, la lettura, il pensiero che succedono a sei giorni di azione producono invece non solo un ammirevole riposo del sistema nervoso ma anche uno straordinario arricchimento psichico, come abbiamo potuto constatare nella nostra esperienza concreta e assolutamente efficace. Nonostante tutti questi benefici, è molto più arduo ottenere dall’essere umano il riposo piuttosto che l’agitazione, perché l’uomo conserva in gran parte una mentalità da schiavo, si piega volentieri al giogo dei suoi oppressori che onora in modo servile e si rivolta con facilità contro i suoi liberatori come lo si vede nelle incessanti proteste contro Mosè e nella rivolta di Core nel deserto del Sinai in cui i vecchi schiavi rimpiangevano la schiavitù dell’Egitto. Secondo, però, una tradizione ebraica millenaria e preziosa, l’uscita dall’Egitto è valida in tutti i secoli e in tutti gli anni, come lo celebra ogni anno il Seder. Siamo sempre un po’ schiavi e possiamo dire quest’anno siamo schiavi, l’anno prossimo uomini liberi, l’anno prossimo a Gerusalemme! Il fatto è che l’uomo deve lottare senza sosta per la libertà non solo contro gli oppressori sociali e i sempre nuovi despoti di cui la nostra epoca offre numerosi esempi, ma per la propria libertà interiore, contro le necessità tiranniche che stordiscono l’uomo incapace di pensare, di raccogliersi, incapace di una vita interiore e di godere dello straordinario arricchimento che procura lo studio della Torah! È per questa ragione che per essere efficace, lo shabbath deve essere un’istituzione sociale, non può esserci Stato ebraico senza shabbath e perché sia attuato lo shabbath deve indirizzare tutta la società e tutta la nazione perché è questa la pietra angolare su cui poggia la società ebraica e, aggiungeremo, tutta la vera società umana.

4. Il rispetto delle fonti
L’ebraismo attribuisce un ruolo cruciale alla Creazione. Dio è venerato come Creatore del mondo. In un’ottica analoga il Decalogo prescrive di onorare il proprio padre e la propria madre perché vi hanno dato la vita. Tale prescrizione si estende ai maestri che vi hanno istruito ed educato perché è come se vi avessero creato. Il rispetto dei maestri da parte dei discepoli è stata la base del Talmud e rimane fondamentale in tutta la tradizione ebraica. Aggiungiamo che si tratta innanzitutto non di un’ubbidienza servile ma di un’autorità di stima e di riconoscimento, poiché qualsiasi uomo che vi ha insegnato qualcosa, secondo la tradizione ebraica deve essere chiamato vostro maestro. La tradizione è così forte e così caratteristica da essere stata il bersaglio degli attacchi antisemiti e principalmente di quelli di alcuni studiosi di “caratteriologia” di ispirazione nazista. Il rispetto delle fonti comprende anche il rispetto della priorità e della citazione scrupolosa delle persone cui si deve la minima nozione. Per questa ragione i Saggi del Talmud scrivono sempre be-shem, in nome di tal dei tali, perché non si appropriano di un’idea che è stata data loro da un altro ma ne conservano scrupolosamente la proprietà. Questa regola essenziale, indicata con il nome be-shem omro (in nome di chi lo ha detto) costituisce la base fondamentale dell’onestà intellettuale e dell’onestà scientifica. Secondo la tradizione del Talmud, tale regola ha anche determinato la salvezza del popolo ebraico dallo sterminio di Aman perché Ester non teme di ricordare davanti al re la riconoscenza che doveva al suo Omen Mordechai (Omen che designa l’educatore, in qualche modo il padre adottivo, è la radice che esprime la fiducia, la fede. La lingua ebraica antica basa l’educazione sulla fiducia, mentre il latino sulla direzione, sul comando – ducere). Abbiamo già visto che Mosè non è potuto entrare nella Terra Promessa perché non ha fatto menzione di Dio nel miracolo delle acque di Merivah e le sue parole potevano far credere che il miracolo fosse suo. Qui sta la base del vero monoteismo in cui nessun uomo può essere deificato o equipararsi a Dio. Una regola essenziale in virtù della quale nessuno deve attribuirsi fatti o cose presi in prestito da altri è il principio di ogni morale […]. Il rispetto sacro e minuzioso delle fonti è la pietra angolare dell’ebraismo. Questo si traduce nel rispetto dei genitori che vi hanno messo al mondo, di chi vi ha dato il minimo insegnamento, degli anziani (alzati davanti ai capelli bianchi e onora il vecchio) e in tutte queste forme di rispetto, il rispetto di Dio che ha creato l’uomo. Il monoteismo ebraico forma perciò un tutto indissolubile. Bisogna riconoscere che nella nostra epoca il principio fondamentale del monoteismo ebraico è continuamente violato dagli ebrei come dai non ebrei e che è in contraddizione con le nuove correnti che animano il nostro secolo, e che rappresentano, infatti, un neopaganesimo virulento. Queste correnti si basano su un principio opposto a quello del rispetto delle fonti e del be-shem omro: il nuovo principio può essere indicato con il nome di utilitarismo sistematico. Il principio consiste nel carpire più cose utili possibile ai propri genitori, ai propri maestri per poi sostituirsi a loro, per schiacciarli. È esclusa una qualsiasi riconoscenza e anche ogni esattezza storica. Il saccheggio delle fonti, attribuendosele, è il metodo. Il disprezzo delle fonti non solo implica il disprezzo dei genitori, dei maestri ma anche il disprezzo della storia perché l’uomo può andare avanti solo rendendo omaggio ai suoi predecessori che hanno faticato per far progredire l’umanità. Servirsi dei frutti dei loro sforzi senza farne menzione è un’azione spregevole. Inoltre, abolendo il passato, essa ostacola i progressi dell’avvenire e toglie ogni prospettiva e ogni senso alla storia. Il popolo ebraico è un popolo storico. La religione ebraica attinge le proprie fonti dalla storia e dalla continuità della storia. Uno dei principi del monoteismo ebraico, come ha sottolineato Joshua Jehudah, è il significato della storia condotta dalla Provvidenza verso uno scopo, significato che si rivolge sia alla storia dei popoli e delle nazioni che alla storia individuale […]. Le innumerevoli prescrizioni della Torah costituiscono perciò sia una fede che una scienza. La fede viene dal rispetto della Torah, ma la certezza scientifica dalla constatazione della vera efficacia delle prescrizioni nella società umana reale.

5. I 613 Comandamenti e l’applicazione della Torah
Le numerose prescrizioni della Torah sono assai difficili da capire per una mente occidentale abituata a dividere tutto in categorie, in sezioni, in compartimenti, in specie. In quest’ottica, possiamo ovviamente separare la medicina dalla sociologia, dall’economia politica, dall’arte militare, dalla dietetica, dalla morale, dalla cosmologia, dalle scienze naturali, dalla filosofia, dalla teologia, ecc. Si può dunque scomporre la Torah in tutto quel che si vuole, ma così facendo si altera gravemente e si deforma la verità storica perché la Torah è tutte queste scienze contemporaneamente, ma tutte queste scienze fuse in una unità totale e inalterabile. La scuola psicologica della Gestalt ha dimostrato che non si può formare un tutto unendo semplicemente le sue parti. Una sinfonia non è fatta del semplice insieme dei pezzi dei diversi musicisti che l’eseguono, è fatta di una sintesi, di un’unità di tutti i pezzi in una forma particolare che è opera del direttore di orchestra. Il mondo moderno tende alla moltiplicazione delle parti e degli automatismi come quei servizi di ospedale in cui brulicano interni, addetti, associati, assistenti ecc., tutti senza un legame, e il cui capo è relegato in una gloria artificiale e inefficace. Sono servizi senza direttore di orchestra, servizi schizofrenici in cui i malati non sono veramente curati. È così in tutti gli ambiti. La moltiplicazione indefinita degli specialisti autonomi senza un legame porta a un mondo automatico, meccanico, senza direttore di orchestra e a un universo automatico, anch’esso senza direttore di orchestra, cioè, senza Dio. È così che il mondo moderno ha scacciato la Shekhinah e ha perciò disumanizzato l’umanità. È esattamente il contrario della tradizione ebraica. È la dissociazione opposta all’unità, cioè, alla vita. Scomporre la Torah è perciò inutile poiché la minima questione studiata alla luce di questa (Torah), mostra un groviglio indissolubile di dati biologici, sociali, morali, teologici e le prescrizioni alimentari o quelle relative alla vita sessuale, per esempio, sono igieniche, mediche quanto religiose e morali. Prendiamo per esempio la nozione della vita e della scetticità. Appena la vita si ritira, il corpo diventa impuro. Appartiene alla batteriologia, diranno i batteriologi moderni i quali sanno che, appena muore, il corpo è invaso da colibacilli. Sì, ma il corpo umano è molto più scettico del corpo di un animale e sembra persino che la scetticità dopo la morte sia tanto più grande in quanto si tratta di un essere la cui anima è più sviluppata. Ciò implica un rispetto della vita dell’uomo maggiore di quello dell’animale, implica il carattere sacro spinto al più alto livello della vita umana, di questa vita creata e 113 difesa da il Dio della vita, il El hu be-khhol basar, il Dio del soffio di vita che è in ogni corpo. Da una questione dunque apparentemente di natura batteriologica eccoci rapidamente immersi nei misteri metafisici e al centro della teologia […]. Non possiamo in questa sede riprendere lo studio delle prescrizioni così dettagliate e così numerose della Torah, classificate nella tradizione ebraica in 613 Comandamenti. Su questo punto la tradizione si distingue dalle religioni nate dall’ebraismo perché conserva integralmente la Torah in tutti i suoi dettagli e non fa una scelta nelle prescrizioni della Torah. Le religioni emanate dall’ebraismo, in particolare il cristianesimo, hanno mantenuto soprattutto le prescrizioni morali lasciando da parte quelle corporali e anche sociali. Così il Vangelo ritiene che le parole che escono dalla bocca sono più importanti degli alimenti che nella bocca vi entrano, il cristianesimo non ha conservato le prescrizioni alimentari e i popoli cristiani mangiano il sangue degli animali, mangiano il maiale, ecc. Nell’ebraismo la nozione di purezza è molto più generale e prevede che le mani siano lavate prima dei pasti, che si pulisca dalla sporcizia il corpo di un morto, prevede anche precauzioni relative al periodo mestruale da un punto di vista sessuale, la mikveh, in breve, una più grande premura per il proprio corpo che si deve mantenere con zehirut e che non abbiamo diritto di sacrificare più della sua anima. Queste precauzioni non diminuiscono ovviamente l’estrema importanza di quelle morali, dell’“amerai il prossimo tuo come te stesso”, prescritto da Mosè con i mezzi da applicare per regolare i conflitti con franchezza e sincerità, il ruolo particolarmente pericoloso del lashon hara, della maldicenza messa spesso sullo stesso piano dell’omicidio e delle peggiori persecuzioni, la ricerca imparziale della verità che non sempre si unisce, contrariamente alla maggioranza dei casi, al consiglio di non seguire i più per fare il male, prescrizioni certamente molto diverse dalla concezione moderna che accorda al gran numero tutti i diritti e in cui la maggioranza e il voto dettano legge! Se ricordiamo questi pochi esempi tra mille altri è per dimostrare il tono e il carattere veramente specifico e unico della civiltà ebraica. Il popolo ebraico ha il compito di conservarla intatta, adattandola a ogni secolo fino alla fine dei tempi e fino al momento del Messia in cui sarà applicata. La custodia minuziosa è sfociata in una scienza immensa, vera scienza dell’uomo contenuta nel Talmud e negli scritti ulteriori. Questo lavoro di straordinaria profondità dimostra che l’ebraismo è interamente rivolto all’applicazione pratica nella realtà, e non solo a un ideale proclamato che si incarna poi nella vita, perché l’incarnazione rimane sempre imperfetta e l’ideale separato dalla realtà. Il realismo concreto dell’ebraismo ne fa una scienza e una religione. Ciò è così vero che le prescrizioni della Torah conservate preziosamente anche quando le ragioni non appaiono come la Parola di Dio attendono secoli per ricevere la conferma scientifica dell’esperienza e delle ricerche scientifiche moderne. Nelle pagine precedenti abbiamo citato esempi sorprendenti, come se la Torah contenesse in anticipo in sé la scienza dei secoli futuri, sotto forma di rivelazione. Abbiamo preso l’abitudine di contrapporre lo spirito alla lettera e di pensare le prescrizioni della Torah rispettate minuziosamente dagli ebrei come una specie di sottomissione alla lettera contro lo spirito. Una divisione e un’opposizione artificiali. Per l’ebreo istruito e consapevole ogni pratica è carica di spiritualità e la parte materiale della pratica ha precisamente come scopo di iscrivere nella realtà la realtà spirituale, perché le due realtà sono fuse in un’unità, perché che cosa sarebbe un ideale spirituale non materialmente realizzato? Sarebbe solo speranza, finzione, utopia, o forse, ancora meglio, un’ipocrisia? Separando lo spirito dalla lettera, l’ideale dall’applicazione, lo spirituale dal temporale, releghiamo Dio nel Cielo e lasciamo la Terra abbandonata a tutti gli oppressori, a tutte le ingiustizie, a tutti gli arbitrii, a tutte le impudicizie e perversioni, a tutte le rapine e le violenze, in una rassegnazione disincantata, debole e colpevole che copre il male con il manto del bene e che soffoca il bene nell’ipocrisia dei compromessi e delle capitolazioni.

II. Dati pratici
Le riflessioni storiche e psicologiche precedenti ci permettono adesso di rispondere alla domanda posta dal governo di Israele: “Chi è ebreo?”

1. È noto che di secolo in secolo il popolo ebraico costituisce il supporto vivente di una civiltà profonda che deve conservare praticandola e adattandola di secolo in secolo per in vista dell’era messianica, si capisce che a tale scopo il popolo ebraico deve conservare preziosamente la propria individualità anche nella dispersione e che ancora a tale scopo non può lasciarsi sommergere da nuovi massicci apporti. Si può capire anche che la pratica della civiltà ebraica richiede lunghe abitudini che si trasmettono in famiglia e in una certa misura anche per eredità. Il destino particolare del popolo ebraico è perciò diverso dalle religioni che da esso hanno avuto origine. Tali religioni mirano infatti a estendersi in superficie e sperano di conquistare almeno spiritualmente l’intera umanità, pensando che tale generalizzazione garantisca il trionfo della loro dottrina. Ciò non è affatto provato. L’estensione in superficie porta troppo spesso all’indebolimento in profondità e l’aumento del numero non sempre significa successo; al contrario, può implicare una sconfitta finale perché una dottrina troppo diluita finisce per non essere più applicata e muore per l’estinzione della propria forza interiore. L’estensione in superficie, inoltre, se per un certo periodo sembra portare a successi spettacolari, prima o poi finisce per scontrarsi con resistenze sempre più forti: l’estensione e la conversione costituiscono infatti un vero imperialismo che consiste nel conquistare le anime. Tale conquista, come ogni conquista, si scontra con la personalità dei popoli che pretende trasformare e agisce anche come fattore distruttivo della loro eredità, della loro tradizione, della loro specifica personalità. Quest’ultima sembra piegarsi fino a quando i popoli rimangono poco sviluppati ma arriva un momento in cui essa reagisce e si scatenano conflitti terribili tra la dottrina imposta e la personalità ereditaria soggiacente. Ne conseguono sia una vera rivolta tra i soggetti più energici, sia, invece, uno choc di ritorno contro la propria personalità ereditaria tra quelli più deboli o che hanno subito di più l’im115 pronta esterna. Questi fenomeni cominciano a svilupparsi tra i popoli coloniali e spiegano in parte la crisi del mondo attuale. D’altro canto, il livellamento di tutti gli esseri umani su uno stesso tipo e su una stessa dottrina porta all’impoverimento spirituale e, per l’influenza dell’assimilazione e dell’imitazione servile, inaridisce i caratteri propri di ciascun popolo. Contrariamente alla concezione imperialista dell’universalità e della conquista delle anime, l’ebraismo e la concezione di Abramo rispettano la personalità degli individui e dei popoli e non cercano di convertirli. Essa si propone una specie di unione federale dei diversi popoli che conservano le loro caratteristiche ma sono uniti dalla scoperta del principio morale fondamentale che guida l’umanità e il mondo. Si può capire perciò la parola rivolta ad Abramo che in “lui si uniranno le famiglie della terra” 9. Queste famiglie, però, conservano la propria individualità e non hanno bisogno di essere dissolte e distrutte spiritualmente per essere unite in un’intesa rispettosa della loro personalità.

2. L’ebraismo, tuttavia, non si è mai negato di ammettere nuovi membri, a condizione che l’ammissione fosse limitata e sottoposta a rigorose garanzie. I Commenti del Midrash e di Rashi ci spiegano che quando è scritto che Abramo lasciò Ur per andare in Cananea con i suoi beni e con le anime che possedeva, ciò è già indicazione degli adepti che aveva riunito e che si erano schierati con lui nella sua fede nel monoteismo. Analoghi commenti riguardano Giacobbe, il gher, lo straniero non ebreo che diventa ebreo per convinzione, è sempre stato ammesso e possiamo riconoscere che queste conversioni spontanee ma non cercate hanno svolto un ruolo importante nella storia del popolo ebraico. Poiché questa storia è sempre stata tragica e segnata da persecuzioni, tale situazione ha avuto una funzione selettiva e ha eliminato le personalità deboli o calcolatrici. Abbiamo visto a più riprese il fenomeno del gher tzedek, cioè dello straniero che lascia una situazione felice e tranquilla per condividere le persecuzioni degli ebrei e mettersi dalla parte di una legge molto più difficile di quella degli altri popoli. Si racconta persino che alcuni Romani hanno voluto convertirsi al momento dell’assedio di Gerusalemme, e lo stesso avvenne per Elena di Adiabene che abbracciò l’ebraismo. Conosciamo la conversione in massa dei Kazari, ecc. In ogni caso non troviamo distinzioni tra gli ebrei di origine e i discendenti di questi convertiti, tanto la legge ebraica li ha profondamente plasmati. Questi fatti dimostrano l’estrema importanza della pratica approfondita di una civiltà con la fede che la anima. Possiamo osservare del resto che spesso chi abbraccia una fede così difficile e così minacciata e che dà con gli atti simili prove del proprio amore e della propria volontà, diventa un ebreo più istruito e più profondamente ebreo di chi lo è soltanto di nascita.

3. Gli ebrei di nascita, cioè gli ebrei nati da genitori ebrei, se beneficiano dell’eredità delle pratiche e di una formazione profonda, praticata da generazioni, godono di questi benefici soltanto se si tratta di generazioni impregnate della fede e delle virtù dell’ebraismo. Gli ebrei di nascita, però, non sono al riparo dall’assimilazione, tutt’altro, soprattutto nella nostra epoca essenzialmente anti-religiosa in cui gli ebrei, come gli altri popoli, sono sottoposti all’influenza di dottrine e di modi di vivere estranei alla loro tradizione e a un epoca in cui si sviluppa un neopaganesimo estremamente attivo e virulento. Un certo numero di ebrei di nascita, inoltre, rimpiange di essere ebreo e di subire le persecuzioni e, soprattutto se ha una scarsa istruzione ebraica, è sedotto dai modi di vivere degli altri popoli, considerati superiori e garanzia di successo. Le religioni in apparenza trionfanti esercitano su di loro lo stesso fascino. Questi ebrei compiono uno sforzo di volontà per assimilarsi, per affrancarsi dalla loro “giudeità”,10 per identificarsi con i non ebrei. Uno sforzo che però molto spesso si scontra con la resistenza del loro inconscio collettivo plasmato da abitudini ebraiche millenarie […]. Tutto avviene, perciò, come se gli ebrei fossero sottoposti a un destino predeterminato che devono accettare e da cui non possono tirarsi indietro senza grossi rischi. Questa situazione storica così antica e così continua costituisce un argomento in favore del destino provvidenziale e dell’esistenza storica della Provvidenza […]. Ricordiamo, infine, che la Torah non esclude che l’ebreo di nascita che si abbandona ad atti vergognosi, profanando la legge ricevuta, venga escluso dal suo popolo, ma soltanto da Dio tale esclusione è vera. Vediamo, dunque, che la qualità di ebreo non può in alcun modo essere esclusivamente ricollegata a un fattore razziale. L’eredità non è sufficiente perché il popolo ebraico non è il risultato di un nucleo razziale ma di un raggruppamento prodotto dall’adesione a una fede, a una civiltà, a un modo di vivere, raggruppamento certamente favorito dalla famiglia e dall’eredità ma inseparabile dalla fede spirituale che lo anima e che lo ha creato, dal momento che è per questa fede che Abramo ha deciso di separarsi dal proprio paese e dalla Caldea per formare un popolo speciale “un popolo di sacerdoti” devoto e consacrato al Dio unico. Dimenticare tale origine e tale significato vorrebbe dire non solo rinnegare tutta la tradizione ebraica ma aderire a una dottrina estranea all’ebraismo, dottrina che deve essere considerata una toevah, un’abominazione nonché una manifestazione dell’Avodah Zarah […]. Sappiamo che verrà sollevato anche il problema dei semi-ebrei, cioè dei soggetti di cui un solo genitore è ebreo. Questi semi-ebrei all’inizio erano stati risparmiati da Hitler per cadere in seguito sotto il giogo delle persecuzioni. A questo proposito, alcune tendenze rabbiniche distinguono coloro la cui madre è ebrea e che considerano ebrei, da quelli di cui solo il padre è ebreo e per i quali pongono ostacoli per riconoscerli come ebrei. La distinzione trova origine nel fatto che nel libro delle Cronache è menzionato il nome della madre dei re. La menzione potrebbe però spiegarsi con il fatto che portando ciascuno il nome del proprio padre, si è obbligati a fare menzione del nome della madre per avere il nome di entrambi i genitori. Niente autorizza a dedurre da ciò che conti soltanto l’eredità materna. (Un’altra ragione consisterebbe nel fatto che non si è mai sicuri del proprio vero padre mentre si è certi della madre che ci ha dato alla luce. Altri hanno fatto notare che la madre educa i figli e crea l’atmosfera del focolare domestico. Un’opinione che ci sembra molto teorica. In un gran numero di casi che abbiamo osservato, la madre ebrea sposata con un non ebreo abbandonava l’ebraismo e seguiva suo marito, lasciava convertire i propri figli al cristianesimo; i figli diventavano spesso cristiani fanatici e antisemiti. La nostra esperienza ci ha invece dimostrato la particolare importanza del padre che conserva più spesso l’ebraismo. Beninteso, possiamo osservare i casi più diversi, ma la nostra esperienza appunto non conferma le decisioni rabbiniche in merito alla madre). A questo proposito, è bene ricordare che se le leggi della Torah costituiscono una regola eterna, gli scritti rabbinici sono le direttive di circostanze che possono essere modificate. Certo, le abitudini secondo le epoche hanno determinato qualche cambiamento persino in alcune leggi della Torah dichiarate fondamentali: è così che i sacrifici di animali, la legge della Parah Adumah, alcune leggi sulla tumah sono cadute in disuso. Ma niente assicura che queste non ritroveranno la propria applicazione il giorno in cui l’ebraismo avrà ripreso la propria vita in Terra di Israele. Alcune leggi possono infatti essere applicate solo in Terra di Israele. È possibile invece che prescrizioni rabbiniche fatte in determinate epoche cadano in desuetudine, in particolare quelle relative all’eredità materna e paterna. Ricordiamo del resto, a questo proposito, che lo stesso Mosè era sposato con una non ebrea e che i suoi figli erano tuttavia considerati ebrei. Lo stesso avvenne per Giuseppe, sposato con un’egiziana i cui due figli Efraim e Manasse, furono pertanto capi di due tribù ebraiche. In quanto al caso, talvolta evocato, di Agar e Ismaele, figlio di Abramo, il Midrash Rabbah spiega che Ismaele è stato mandato via perché troppo viziato, era idolatra, aveva abbandonato il Dio del proprio padre, era andato a raggiungere Esaù e si dava al brigantaggio […]. Al ritorno da Babilonia, dal tempo di Esdra e Neemia, forse fu condotta un’aspra lotta contro gli ebrei sposati con donne straniere per timore che queste trascinassero i propri mariti e i propri figli verso l’idolatria, ma anche in tale lotta vediamo che lo scopo è preservare la fede religiosa, il movente non è razziale, biologico. È certo che la moltiplicazione dei matrimoni misti rischiava di dissolvere il popolo ebraico negli altri popoli e per questa ragione, dopo le grandi dispersioni e il ritorno, sono state adottate misure contro questa eventualità. Nei matrimoni misti è la convinzione più forte a prevalere. Se l’ebreo è tiepido o distaccato dall’ebraismo, il proprio congiunto è spinto verso lo spirituale che svolge un ruolo essenziale che non il sangue invece non ha […].

III. Conclusioni

1. Il problema dell’identificazione degli ebrei in Israele […] richiederebbe nuovi studi. Il criterio della madre ebrea rimane discutibile e del resto non si trova nella Torah, e non si sa bene come si è prodotta l’evoluzione dal patriarcato biblico al matriarcato. C’è uno studio preciso da fare. In ogni caso, il governo da solo non ha la competenza per modificare le decisioni rabbiniche. Sarebbe necessario un Sinedrio per ristudiare la religione ebraica nelle sue tradizioni e adattare lo spirito della Torah alla nostra epoca e alla vita in Israele.

2. In nessun caso l’ebraismo può evolversi in semplice razzismo. Il popolo ebraico è stato creato dal monoteismo ebraico e costituisce un gruppo umano la cui individualità e unità sono determinate dalla sua fede, dai suoi modi di vivere conformi alla civiltà della Torah. Non possiamo ammettere che bambini appartenenti a famiglie che hanno subito le persecuzioni hitleriane siano umiliati e insultati in Israele a causa della madre non ebrea. È un abominio sia sul piano dell’ebraismo che su quello umano, un abominio che nessun governo può tollerare e che deve essere represso molto severamente.

3. Stando così le cose, un censimento degli ebrei con iscrizione sulla carta di identità sembra impossibile e a nostro avviso non deve avere luogo. Un simile censimento ricorda troppo i censimenti che hanno preceduto le recenti persecuzioni hitleriane. D’altronde, tale censimento è assolutamente contrario alla Torah e a tutta la storia ebraica. Sappiamo quanto il re David fu biasimato per aver proceduto a un censimento. Un tale censimento potrebbe sembrare un attentato alla dignità umana e potrebbe essere interpretato come un inizio dei metodi di cui gli ebrei sono stati vittime e che tutta la loro tradizione condanna. 4. Il governo di Israele, come tutti i governi, deve invece studiare la situazione di ogni candidato alla cittadinanza per giudicare se questa possa essere concessa. La cittadinanza è affare dello Stato, del governo e non ha bisogno dell’intervento della religione; essa può essere uguale per tutti quali che sia la loro origine e la loro religione. La Torah ordina del resto che una stessa legge sia applicata agli ebrei e ai non ebrei e che gli stranieri siano trattati come i cittadini perché ogni ebreo deve ricordarsi che è stato straniero in Egitto. Lo Stato di Israele non è infatti solo un centro di raccolta degli esiliati ma deve diventare innanzitutto un focolare dell’ebraismo vivente, come nell’antichità, un focolare che deve risplendere sul mondo e deve far vivere lo spirito della Torah. È ovvio che nell’attribuire la cittadinanza, lo Stato di Israele può tenere conto dei meriti di ciascun candidato e del suo attaccamento all’ebraismo, della sua famiglia, della sua volontà, delle prove che ha subito, eccetera, e regolare di conseguenza l’attribuzione più o meno rapida della cittadinanza. Un tale studio, se fatto in modo giusto e imparziale, vale più di un’attribuzione automatica e sarà più apprezzato.

Henry Baruk

(5 gennaio 2014)