Maghreb

Francesco Moisés BassanoIl racconto sul Marocco di Dario Calimani, così come l’aria di festa di questi giorni, mi riportano alla mente la venerazione dei santi-rabbini o Saddiqim nel Maghreb. Sebbene se ne abbia già una modesta conoscenza, si tratta questo di un fenomeno che almeno in lingua italiana non è mai stato granché approfondito, come del resto tutto ciò che concerne l’imponente tradizione ebraica nord-africana, dispersa e in parte cancellata dopo l’esodo degli ebrei dai Paesi Arabi. Un culto, quello degli Zaddikim, centrale e diffuso in tutto l’ebraismo, così come è riscontrabile altrove il pellegrinaggio alle loro tombe (sia in Eretz Israel, che tra i Hassidim dell’Est Europa, si veda Uman’), ma che nel Maghreb, e in Marocco soprattutto, acquisì forme e circostanze esclusive tra cui la condivisione di alcune figure tra musulmani ed ebrei.
Come scrive Joseph Tolédano in Les Juifs maghrébins” del 1989: “I Santi fanno parte della vita quotidiana: la loro principale funzione religiosa è quella di servire da intermediari e di proteggere. Intercessori privilegiati presso l’Eterno, la loro santità emana dalla prossimità con D-o e in alcun modo dalla loro persona”.
Il pellegrinaggio “Ziyara” avveniva/avviene soprattutto in concomitanza dell’anniversario della morte dello Saddiq, occasione in cui tutta la comunità si recava in raccoglimento alla sua tomba (detta “Siyid“ in giudeo-marocchino), dando luogo così al festeggiamento del Hilloula, pranzo animato da canti gioiosi e preghiere, dove si poteva chiedere al Santo miracoli o guarigioni. La festa è comparabile per vari aspetti al Mawlid dell’Islam nordafricano, chiamato “Moussem” in Marocco e “Waada” in Algeria, dove viene usato più genericamente il termine Marabout, sia per la tomba che per il pellegrinaggio/festa, e soprattutto per il Santo, sovente un Murshid, maestro Sufi.
Issachar Ben-Ami in una monumentale ricerca del 1984 valutò circa 616 Saddiqim venerati tra gli ebrei marocchini, sepolti soprattutto nel montuoso Sud del paese, dove resistevano ancora influenze e tradizioni berbere dei Toshavim, gli ebrei “autoctoni” (in opposizione con i Megorachim, espulsi e provenienti dalla Spagna). L’antropologo Louis Voinot, nel 1848, calcolò invece che almeno 45 Santi marocchini fossero venerati sia dagli ebrei che dai musulmani, mentre trentuno venivano rivendicati come propri dagli uni e dagli altri. Anche quando però si trattava di Santi indubbiamente riconosciuti come ebrei, si assisteva comunque ad una certa deferenza e rispetto, se non eguale devozione, da parte dei musulmani, che ancor oggi non mancano di presiedere alcune delle tombe.
Il Rabbinato marocchino non ha mai concretamente delegittimato la venerazione dei Santi, al contrario di un Islam moderno, globale e centralizzato, ispirato dal Wahhabismo e dal Salafismo, che in nome di un’omologazione e di un controverso progresso/ritorno alle origini, sta mettendo da tempo a freno queste pratiche, etichettandole come rurali ed eterodosse, ed assimilandole alla superstizione dei fellaheen, i “contadini”. In realtà anche perché vengono avvertiti come fenomeni troppo ambigui, scomodi, e “fraintendibili”, in un contesto dove la storia, le specificità, e l’incontro con l’altro, tendono a scomparire rispetto ad una più urgente “sopravvivenza” alla modernità occidentale e ai conflitti politici odierni, dove occorre mostrarsi universalmente distinguibili e uniti ed individuare fin da subito dei nemici comuni. Qui certo non c’è più spazio per Santi condivisi sia dai musulmani che dai “nemici” ebrei. Ciò è trapelato anche nell’entusiasmante romanzo di Amitav Gosh, Lo Schiavo del Manoscritto, una ricerca sul campo sviluppata tra passato e presente: l’Egitto della Genizah di Al-Fustat e l’Egitto campestre dei nostri giorni. Nel libro di Gosh si racconta anche del Marabout di Sidi Abu Hasira (Rabbi Avir Yaaqob 1806-1880) a Damanhour, celebre alle cronache internazionali perché più volte il governo egiziano o gruppi di fanatici sono giunti ad impedirne il pellegrinaggio da parte di ebrei provenienti da Israele. Difatti nonostante le complesse relazioni diplomatiche tra Israele e i Paesi arabi, i pellegrinaggi verso le tombe dei Santi da parte dei maghrebim non sono mai del tutto cessati, restando uno dei pochi ponti di contatto che ancora uniscono gli ebrei con il Nord Africa. Tra i pellegrinaggi più importanti figurano quello di Rabbi Amram ben Diwan a Ouzzane in Marocco, quello di Rabbi Ephraim Encaoua a Tlemcen in Algeria, quello di Rabbi Fradji Chaouat a Testour in Tunisia, e sempre in Tunisia quello di Rabbi Yossef El Maarabi “Hasaied”nell’oasi di El Hamma. Tra le mete di pellegrinaggio v’erano anche le sinagoghe dette Ghriba(t) – le “solitarie” in arabo, considerata la loro posizione isolata in campagna – oltre a quella più famosa di Djerba ve n’erano altre sei disperse in tutto il Nordafrica: a M’anin e Disirt nel Nord-Ovest della Libia, a Biskra e Annaba in Algeria, e le restanti due ancora in Tunisia, ad Ariana e Le Kef. Escluse le tre Tunisine, rimane ignoto il destino e lo stato di conservazione delle altre, come resta ancora molto da scoprire su tutto l’universo degli ebrei del Maghreb. Forse qualcosa potrebbe mutare qualora i regimi, le istituzioni, e gli abitanti non-ebrei di queste zone un giorno arrivassero a comprendere che tutto questo non rientra solo in un interesse ebraico ma riguarda una memoria e un patrimonio comune e condivisibile, in luoghi dove l’estinta presenza degli ebrei non è stata una componente trascurabile e irrilevante avulsa dal resto degli arabo-berberi, ma una parte integrante della storia e della cultura magrebina, a cominciare probabilmente dalla condottiera berbera Kahina…

Francesco Moises Bassano, studente

(18 aprile 2014)