…intellettuali

Si ricorda in questi giorni il secolo dallo scoppio effettivo della Grande Guerra. Da allora non molto sembra cambiato nel campo dell’intervento del ceto intellettuale. Forse una cosa sola: allora la novità del conflitto moderno era evidente, e combinata con la profonda crisi che aveva caratterizzato gli anni a cavallo dell’800 e del ‘900 e alla nascita e allo strutturarsi del moderno nazionalismo imperialista aveva prodotto un impegno personale sul campo di battaglia. Si contano a centinaia gli intellettuali europei morti nelle trincee, convinti di combattere una guerra giusta. Durante la seconda guerra mondiale lo stesso spirito pervase i “piccoli maestri”, giovani intellettuali magari ispirati da alcuni meno giovani, che tuttavia mettevano a rischio se stessi e le proprie certezze e andavano sui monti nel nome della libertà e dell’antifascismo. Da allora però il ceto intellettuale ha preferito sperimentare strade meno rischiose e più produttive sul piano della popolarità e dell’effetto mediatico. Comodamente seduti alla tastiera del proprio personal computer, preferibilmente collegati a internet, gli intellettuali (me incluso, sia chiaro) passano non poco tempo a veicolare informazioni, dare giudizi più o meno fondati, aderire ad appelli, scrivere opinioni. Esaurita l’epoca del coinvolgimento personale (oggi la guerra la fanno gli specialisti), il ruolo dell’intellettuale in tempo di guerra sembra ridursi a quello di megafono di informazioni fornite da altri e il più delle volte difficili se non impossibili da verificare. Il risultato sembra essere l’esaurimento del ruolo stesso dell’intellettuale e la fine di una funzione che nel passato ha potentemente contribuito alla crescita delle società civili. Messo in discussione ormai da molto tempo il ruolo di coscienza critica del Potere (il ceto intellettuale è in gran parte connivente e non fa nulla per opporsi alle dinamiche dei grandi interessi soprattutto economici, ma anche geo-strategici), solo raramente l’intellettuale riesce a dare forma compiuta alla denuncia per lo meno morale di certe scelte politiche che possono avere ricadute catastrofiche sulla vita di molti esseri umani. Parlo di denuncia morale e non intendo includervi il “moralismo” che ha caratterizzato nelle ultime settimane tanta letteratura giornalistica legata al conflitto di Gaza. La morale intesa come concetto alto e universale, che mette al centro della propria ragione la difesa e la salvaguardia delle vite di tutti, e soprattutto delle popolazioni civili, non può essere utilizzata solo quando a essere colpiti sono determinati gruppi di persone, tacendo su quel che avviene magari con maggior ferocia altrove. La morale o c’è o non c’è, e se c’è parla sempre e ovunque: se no si tratta di moralismo peloso, espresso solo con neppure troppo nascosti fini politici, per cui perde qualsiasi valenza universale. La morte violenta di un bambino non ha giustificazione morale. Non a Gaza, non a Mosul, non a Kabul, non a Lampedusa, non ad Auschwitz (questi ultimi due esempi sono più gravi rispetto agli altri, poiché i bambini conoscono pure la dimensione del viaggio verso la morte che per loro hanno decretato gli adulti). Di fronte a tutto ciò io ho sentito da parte del ceto intellettuale solo tanto moralismo, e poco, pochissimo esercizio della parola per disegnare un concreto progetto per una nuova, credibile morale che guidi il comportamento dell’uomo moderno. In particolare mi è sembrata grave la latitanza sul piano della proposta politica. All’inizio del conflitto (prima dei combattimenti di terra fra le case e nei tunnel di Gaza) c’era stato un importante tentativo in questo senso: il giornale “Haaretz” aveva indetto una conferenza sulle prospettive di pace. Vi avevano partecipato sia intellettuali sia politici, israeliani e palestinesi, di sinistra e di destra, ed era stata data voce anche agli ebrei europei con la presenza del filosofo Alain Finkielkraut che a nome del movimento JCall aveva tentato di rilanciare l’opzione (ancora praticabile almeno in fase di transizione) di due stati per due popoli. Si è trattato – mi pare – di un modo nuovo e coraggioso per dire che si può e si deve innanzitutto parlare, che le armi non sono l’unica soluzione. Anzi: che non sono una soluzione. Poi è finita com’è finita (la conferenza si è sciolta con le sirene di un attacco missilistico di Hamas su Tel Aviv). Ma sono convinto che se il ceto intellettuale esiste ancora, e se vuole ritagliarsi un ruolo nel futuro, dovrà adoperarsi per seguire questa strada: fornire cioè occasioni di incontro, di dialogo e di proposta politica a chi il potere lo esercita, per far intravedere altre strade percorribili, alternative alla soluzione facile e inutile dell’omicidio legalizzato.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(8 agosto 2014)