Pensare il radicalismo islamico / 1

claudiovercelliPoniamo da subito una questione di natura terminologica, che è in sé assai più complessa di quanto non possa apparire, poiché denominando qualcosa lo si genera o comunque, vi si concorre a dargli un senso e una posizione nell’ordine delle cose del mondo. Si tratta del significato da attribuire a certe parole, il cui uso inflazionato fa sì che esse rischino di perdere di coerenza, congruenza e performatività. Ci stiamo occupando dell’insieme dei fenomeni che rinviano alle turbolenze in atto nel Medio Oriente e in parte dell’Africa, soprattutto quella mediterranea e subsahariana. Ma non solo. Entriamo quindi nel merito dei termini in oggetto. Definiamo con islamismo e islamista l’insieme dei movimenti politici che si rifanno all’Islam politico contemporaneo, ossai adottano un’interpretazione ideologica della religiosità, volta quindi a legittimare l’azione collettiva e i rapporti con le strutture del potere attraverso i simboli e i valori che rimandano ad aspetti della religione musulmana; la religiosità è invece un complesso di credenze, mutevoli nel corso del tempo ma intese come permanenti da chi le fa proprie e le rinnova nella prassi, che permeano la sua vita, condizionandone le scelte, gli atteggiamenti, i pensieri, le idee e le relazioni con la collettività nella quale; Islam («sottomissione a Dio») indica sia il credo religioso monoteista musulmano che, più in generale, la comunità dei credenti, a sua volta definita anche, più correttamente, con la parola araba Umma; fondamentalismo, radicalismo e integralismo sono qui intesi, sia pure impropriamente, o comunque con un certo grado di arbitrio, come sinonimi o termini per più aspetti equivalenti, indicando tutti un diffuso stile di condotta, di natura rigorosamente politica, basato sul rifarsi ad una “tradizione” a fondamento religioso, che auspica o pratica la costituzione di un «governo di dio». L’immaginario occidentale da sempre si alimenta di una visione sospesa tra l’attrazione e la repulsione di ciò che sta a Levante. Una via di mezzo tra il luogo paradisiaco e la minacciosità dello spettro incombente. La stessa linea di divisione geografica, culturale e politica tra Oriente ed Occidente è, alla prova dei fatti, mutevole, ponendosi storicamente in funzione della tutela degli interessi che le circostanze, di volta in volta, hanno fatto emergere. La sua arbitrarietà si alimenta poi del lascito delle politiche coloniali, dei processi di modernizzazione che hanno attraversato l’età contemporanea, dei rapporti di forza e di potere tra aree e regioni continentali, della mutevolezza e delle fragilità che si accompagnano alla globalizzazione socioculturale ed economica. Un insieme di fattori che sono, nel medesimo tempo, ibridanti e divisivi, imponendo un confronto che in certi casi si trasforma in scontro. Quanto meno nella percezione comune, nella comunicazione veicolata dai mezzi di informazione, nei cascami di una concettualizzazione del mondo ancora fortemente bipolare, quindi dicotomica, dove la complessità delle relazioni e delle identità è dimensionata al fenomeno del cosiddetto «scontro delle civiltà». Non di meno, trattandosi di una lettura esattamente opposta alla precedente ma che con essa tuttavia intrattiene un rapporto di specularità capovolta, il rapporto con l’«altro da sé» è stato molte volte ricondotto al mero problema della politica dell’accoglienza e della tolleranza, riducendo la complessità multiculturale ad un insieme di atti di buona volontà, spesso espressi più in segno di riparazione per i trascorsi colonialisti che non all’interno di una trama di analisi e ricomposizione delle differenze. La comprensione dei mondo islamico, laddove predominano pluralismi e differenziazioni non meno marcate di quelle che si possono registrare nelle società che musulmane non sono, quindi del suo spazio, che abbraccia territori immensi, dall’Atlantico alla Cina, e dei suoi tempi, almeno quattordici secoli di storia, richiede uno sforzo di metodo che non si risolve con le semplice formule, utili forse alla mobilitazione politica ma non al confronto sui grandi assi della trasformazione che ci stanno chiamando in causa: economia, demografia, rapporti di potere nel sistema delle relazioni internazionali. È all’interno di questa complicata rete di tensioni, mutamenti e, a volte, contrapposizioni, che il radicalismo islamista si inserisce, come soggetto della politica, imponendosi non con la forza persuasiva delle sue argomentazioni ma con le incontrovertibili argomentazioni del ricorso alla forza. Le vicende in atto in molti paesi del Mediterraneo meridionale e del Medio Oriente non presentano, peraltro, nulla di eccessivamente sorprendente per analisti, osservatori e politici che da tempo si concentrano sulla comprensione dei processi in corso. Semmai sono parte di una trama fitta, dove si susseguono eventi solo in parte prevedibili ma comunque consequenziali. Se per certuni il momento di rottura è costituito dal biennio 1978-1979, quando il regime di Reza Pahlavi fu rovesciato e sostituito da un’inedita Repubblica islamica dell’Iran, per altri l’evento spartiacque fu la Guerra dei sei giorni del 1967. Da allora le alleanze in campo videro emergere il soggetto radicale, ossia quel pulviscolo di movimenti accomunati dall’essere portatori di un «discorso islamico contemporaneo» (così l’islamologo Mohammed Arkoun) che al contempo costituisce l’ossatura ideologica delle lotte per la conquista del potere politico, un elemento di mobilitazione e di organizzazione della società civile e un sistema di valori e norme attraverso i quali trasformare, nel loro profondo, le comunità locali. All’affermazione del radicalismo islamico si accompagna il declino delle organizzazioni arabe di radice e natura laica. Si tratta dei due capi di un fenomeno strettamente unitario. La riapprorpiazione della sfera della politica – sottratta alla collettività da governanti che hanno tradito le attese, da élites autoreferenziate, da individui che vengono di volta in volta definiti, con linguaggio tipicamente morale e religioso, «empi», «apostati» se non Kùffar, ossia «miscredenti» e quindi «impuri» – passa attraverso la religiosità, che deve informare di sé ogni aspetto della vita quotidiana e, quindi, delle relazioni pubbliche così come dei poteri collettivi. E tuttavia, la linea di separazione tra politico e religioso, che costituisce un fattore determinante nella definizione delle culture occidentali, è assente nel discorso islamista. Poiché l’islamismo è radicale in quanto caldeggia la sintesi tra religiosità, – come forma permanente di organizzazione delle società, composte non da cittadini ma da militanti – e rivoluzione, più che tra la religione stessa e la politica. Il radicalismo islamico, infatti, non si pensa solo come strumento di governo, attraverso la reintroduzione del Califfato, ma anche e soprattutto come sovvertimento continuo delle relazioni tra le comunità. Da questo punto di vista, una delle sue carte vincenti è quella che gli deriva dall’avere riportato in auge lo slogan, oramai decaduto, dopo le infinite vicissitudini che hanno accompagnato il declino del socialismo reale, della «rivoluzione permanente». Il radicalismo islamista si pensa come rivoluzione totale e persistente, alla fine della quale non solo gli ordinamenti politici, oggi fondati sull’«empietà» poiché traditori del verbo divino, saranno stati rivoltati come dei calzini ma la stessa linea di separazione tra la sfera pubblica e quella privata verrà completamente stravolta. Poiché nel regno della giustizia non c’è ragione di ritenere che debba continuare a sussistere una differenziazione tra la prima e la seconda. Così postulando, l’islamismo politico si presenta come un vero e proprio movimento dai tratti totalitari. La sua convinzione di fondo, infatti, è che l’individualità non esista, o che non abbia pari dignità rispetto ai diritti, ai bisogni e alle esigenze, questi sì incontrovertibili, della comunità. Che – quindi – viene per prima, poiché ogni soggettività è esclusivamente una mera funzione dell’unione tra credenti. Non di meno esso mette in discussione gli assunti che definiscono come “naturale” (ossia ovvio e per più aspetti indiscutibile) ciò che è invece il prodotto di scelte politiche e di rapporti di forza, a partire dalla marginalità decisionale di molti paesi nel sistema delle relazioni internazionali e dal sottosviluppo che attanaglia una parte del pianeta. Se per i teorici dell’Occidente, nelle formulazioni tradizionali e quindi più affermate, l’una e l’altro sono il prodotto dei ritardi rispetto ad un modello sostanzialmente univoco di evoluzione delle società, per gli islamisti essi costituiscono il risultato della pedissequa imitazione di un sistema errato, come tale da rifiutare e capovolgere. Ciò che per i primi è una discrasia da superare, per i secondi è un obbrobrio da contrastare. In realtà, come molti analisti hanno rilevato, il rifiuto della modernità che da ciò deriva non è mai totale bensì selettivo. Il fondamentalismo religioso è infatti, da almeno una trentina d’anni, un fenomeno globale e non chiama in causa solo i paesi musulmani. La sua connotazione islamica è però eclatante per il livello di consenso che è riuscito spesso a raccogliere, offrendosi come la soluzione a problemi ritenuti altrimenti irrisolvibili. Nel suo messaggio universalista, ossia rivolto a tutti quelli che intendano fare parte della comunità dei «retti» e dei «giusti», entra in rotta di collisione con l’ideologia dei diritti universali, creando una competizione nel medesimo campo. Lo spazio conteso è, infatti, quello dei fini e dei valori ultimi. Il fondamentalismo è essenzialmente un soggetto politico, che tuttavia si riveste dei panni della religione proprio poiché ambisce a definire – e a delimitare – il campo della legittimazione della convivenza civile, quell’insieme di norme di fondo senza le quali la convivenza stessa diventa impraticabile. Cosa istituisce il fondamentalismo? Come ha osservato uno studioso di vaglia, Bassam Tibi, esso si fonda su un paradosso, ovvero l’opporsi strenuamente alla modernità culturale scaturendo tuttavia dal suo contesto storico, di cui ne è infatti un diretto prodotto. Non si tratta quindi di mera reazione ad essa, men che meno di una semplice vocazione al rifiuto. Semmai è una opzione selettiva, che ne privilegia alcuni aspetti rigettando il resto. Nelle società non occidentali il fondamentalismo è ossessivamente orientato contro lo Stato laico, nazionale e indipendente. È questa la matrice comune di fenomeni politici altrimenti diversi. Poiché lo Stato, così inteso, è visto come una “creazione” occidentale, originando dalla storia dell’Europa continentale ed essendone una delle manifestazioni culturali più significative. Nel momento in cui si ascrive all’egemonia occidentale la responsabilità della marginalità e della decadenza della propria parte, tale diniego non può che articolarsi essenzialmente nel rifiuto del modello di sviluppo che ha trovato nello Stato unitario il suo punto terminale di realizzazione. Attribuendo a tale forma di organizzazione politica e dei rapporti sociali i peggiori requisiti, a partire dalla natura divisiva e artificiale che essa rivesterebbe. Quindi: «il fondamentalismo rispecchia molto di più un’ideologia politica che non la rinascita del religioso» (Tibi). Dopo di che, volere intendere il fondamentalismo solo come esercizio cinico e spregiudicato, che camuffa i propri reali intendimenti dietro la religiosità, è una lettura parziale e sostanzialmente errata dei processi in atto. Il suo nocciolo duro, infatti, è comunque la convinzione che alla crisi della politica, ovvero alla sua inefficacia decisionale, si possa rispondere con la teocrazia. Il dissidio feroce contro la modernità si articola pertanto su più piani, tra di loro vicendevolmente intersecati. Il primo di essi, come si diceva, è il netto rifiuto dello Stato laico, inteso non solo come esperienza fallimentare ma come soggetto della separazione, che divide la grande comunità dei credenti all’interno di confini fittizi, contrapponendoli gli uni agli altri e istituendo l’inconciliabilità tra la sfera del religioso e quella del politico. Per il radicalismo, questo doppia divisione è inaccettabile. Il secondo rinvia alla confutazione dell’ordine mondiale come prodotto di una modernità deviata e corruttrice, dove dominerebbero i principi occidentali della democrazia e dei diritti dell’uomo che, dal punto di vista islamista, costituiscono un’impostura, sotto la quale si cela il potere dei «nuovi crociati». Nell’uno e nell’altro caso il raccordo tra dimensione locale e globale permette ai movimenti che si ispirano al fondamentalismo militante di avere a cura la dimensione territoriale circoscritta, nella quale si trovano ad operare, proiettandola sugli scenari globali. In tale modo, ed il terzo passaggio rilevante, l’elezione del paradigma religioso a chiave di interpretazione del processo storico, che viene in tale modo azzerato nei suoi significati e ricondotto ad un’unica radice, quella della perversione morale e del tradimento dei fondamenti, permette di istituire una sorta di perimetro ideologico inconfutabile e incontrattabile, che non può essere messo in discussione nel rapporto con gli avversari. Ai quali, semmai, deve essere imposto con decisione. Poiché costoro vivono nell’«ignoranza», sinonimo di disordine e di caos, che non è il mero prodotto della non conoscenza bensì del rifiuto. Hanno ricevuto il verbo della verità ma lo hanno disatteso, offeso e quindi calpestato. Un passaggio importante, quest’ultimo, nell’ideologia radicale, perché non c’è fondamentalismo, inteso come narrazione del “fondamento”, della radice di tutto, senza una retorica del suo tradimento. Se questo non si fosse consumato, infatti, non occorrerebbe d’essere ripristinato. Tutta la narrazione islamista ruota quindi intorno al binomio che esso stesso istituisce tra storia e declino. La forza dei movimenti radicali è di presentarsi come lo strumento che permetterà finalmente di raggiungere l’unico legittimo fine, l’ovviare alla caduta in atto nell’umanità. In ciò sta il vero atto di fede, prima ancora che nel riconoscersi in un dettato culturale, teologico e ideologico rigorosamente islamico. Non a caso, quindi, la distinzione tra Islam e islamismo ha la sua ragione d’essere, trattandosi, nel secondo caso, di un discorso di mobilitazione e non di riflessione e articolazione della complessità di una tradizione. (1/segue)

Claudio Vercelli

(21 settembre 2014)