Sicilia…

Ho viaggiato per tre giorni da una costa all’altra della Sicilia con il gruppo Kesher di Milano, apprezzando ciò che per i milanesi è il più grande dei problemi: la differenza. In autobus a Palermo o da Siracusa a Noto ho parlato o sentito parlare (e cantare!) almeno tre lingue, tra francese, ebraico ed italiano. Ho riso con un nuovo amico scherzando con l’accento siciliano o l’ebraico dei bagnini della spiaggia di Tel Aviv. Ho parlato dei Modiano di Salonicco, dei Florio di Palermo, di Abulafia a Siracusa, dei Franco di Catania. Ho scoperto come un tocco di pasta di mandorle dal quale si ricava un nettare divino sia il segno del benvenuto nelle case di Beirut, Istanbul, Il Cairo, Aleppo e Palermo. Ho visto, con occhi per la prima volta non miei, come si sia modificato il confine dell’ebraismo d’Italia che oggi sta rispondendo ad esigenze identitarie di persone che vivono ben più giù di Napoli, ultima piccola comunità ebraica ufficiale del Sud Italia. E quando penso alla parola ‘Kesher’, al legame, alla relazione, mi rendo conto per molti, dopo questo viaggio, il versetto di Geremia capitolo 31, 16: “E torneranno i figli ai loro confini”, andrebbe interpretato come: “E conosceranno i figli i loro confini”. Quelli fisici di un Ebraismo lontano dal ‘centro’ e quelli propri, di un ebraismo a volte cristallizzato intorno a ciò che sembra ‘il centro’.

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino

(12 dicembre 2014)