Trieste di Daša Drndić – Il plauso della critica

“Luglio 2006: Haya Tedeschi, 83 anni, aspetta nella propria casa di Gorizia, la città prossima a Trieste al confine tra Italia e Slovenia, il ritorno del figlio che le fu strappato 62 anni prima durante la guerra”. Questo l’incipit di Craig Seligman che recensisce per il Sunday Book Review del New York Times, il paradiso dei libri benedetti, Trieste di Daša Drndić, calando immediatamente il lettore in un’atmosfera sconcertante.
E continua: “Uno scrittore americano non avrebbe avuto alcun dubbio e avrebbe immediatamente focalizzato l’attenzione nel drammatico incontro tra madre e figlio. Ma Trieste della romanziera, sceneggiatrice e critica Daša Drndić è un lavoro simbolo della raffinata cultura europea. L’autrice non scrive certo per intrattenere o per istruire. Scrive per testimoniare; fa in modo che il dolore ci colpisca brutalmente”. L’incontro chiave del libro è quello tra Haya e l’ufficiale tedesco Kurt Franz: “Nel gennaio 1944 Franz entra nella tabaccheria dove lei lavora. L’ottobre seguente nasce il loro figlio Antonio. Franz presto le dà il benservito (‘Mia piccola giudea, così non può continuare’) e Antonio sparisce nel nulla mentre lei si è girata”. Seligman pone l’accento sulle multiforme influenze che compongono lo stile dell’autrice: “La tecnica è quella di Sebald, il tono quello di T. S. Eliot in La terra Desolata ma ci sono anche citazioni di Borges, Pound, Montale e Saba”.
A evidenziare poi un particolare determinante di Trieste è AN Wilson sul Financial Times: “Colpisce come le morti siano riportate dettagliatamente. Nel volume infatti sono presenti molte pagine nelle quali vengono trascritti i nomi dei 9mila ebrei italiani deportati tra il 1943 e il 1945. Anche se la trama è inventata, la ricerca storica va in profondità”. “La vicenda di Haya – prosegue Wilson – emerge frammento dopo frammento mentre Drndić documenta gli eventi che colpiscono l’intera regione. Anche chi ha letto numerosi libri sulla Shoah riuscirà a scoprire in questo libro nuovi dettagli sconvolgenti e scioccanti: dal ruolo della Svizzera a quello della Chiesa”. E poi: “Il personaggio di Kurt Franz fu davvero uno delle SS che comandò a Treblinka. E viene ricordato come uno dei peggiori: responsabile della morte della sorella di Sigmund Freud, si divertiva a sparare ai bambini mentre i suoi compagni li lanciavano in aria”.
Nel Times Literary Supplement Mark Thompson analizza lo stile adoperato dall’autrice: “Il melodramma di Trieste pulsa all’interno di una struttura modernista: lettere, documenti, fotografie, articoli di giornale, citazioni letterarie sono tutte inserite nella narrazione. La vicenda di Haya è intervallata da lunghe digressioni eppure non scompare mai”. “Il tono scelto è implacabile” sentenzia Thompson.
“Lo straordinario lavoro narrativo – recensisce Amanda Hopkinson sul The Independent – si conclude con l’immagine di Haya Tedeschi che riflette su tutto ciò che ha collezionato in otto anni di ricerca e rievocazioni: ‘Ho organizzato una moltitudine di vite, un mucchio di passato, in una serie di eventi imperscrutabili e incoerenti. Ho frugato in una serie di questioni senza trovare traccia di logica’. Ed è proprio questa imperscrutabilità ed incoerenza nella ricostruzione di tre generazioni di una famiglia, a partire dalla Seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni, che conferisce alla storia qualcosa di unico e reale”. Hopkinson mette in luce due aspetti di questa opera “torrenziale”: i dati statistici presenti che confluiscono anche nella particolare geografia del zona, i cui confini e la cui popolazione vive un continuo processo di ridefinizione e le diverse sfumature dei nazisti. “Essere nazista non è una sorta di prefabbricato istituzionale, ma dà spazio alla propria individualità malata”.
Un merito viene infine dato alla traduzione all’inglese di Ellen Elias Bursac, esaltata anche da New York Times per la sua eleganza imperturbabile. “Un libro aspro e inquietante” scrive Dominque Autrand sulle pagine di Le Monde Diplomatique, partendo dall’analisi della città di Haya: Gorizia, dai mille nomi e le diverse identità. Mentre fruga forsen- natamente tra i ricordi ed i docu- menti posti alla rinfusa in un cestino rosso, la protagonista avvia “un romanzo documentario, posto in una spirale allucinatoria”. “La vicenda fittizia di Haya – dice Autrand – viene arricchita da documenti reali ma soprattutto viene interrotta dalla lista dei 9000 nomi degli ebrei italiani deportati. Ed ogni nome trascina con sé una storia. Non sapremo di certo le vicende di tutti i 9mila, ma di alcuni sì grazie alle ricerche della nostra protagonista”.
Entusiasta la critica di Alan Cheuse della National Public Radio: “Attraverso fotografie, testimonianze di processi, poesie, scene di torture, incarcerazioni e assassinii, Drndić ha creato un libro incredibile, sia soggettivo che oggettivo, un libro di nomi ma anche sulla vita di un’unica donna, un libro di posti ed eventi che hanno condizionato un’epoca intera. Un libro per il quale a volte bisogna sedersi, sbattere gli occhi, respirare e sbattere ancora gli occhi. E poi dire a se stessi, qualunque sia la divinità nella quale si crede: Ti prego, per favore, per favore, mai, mai più”.
“La finzione incontra la realtà nel romanzo croato sul figlio del nazista”, questo titolo dell’articolo di Todd Gitlin sul Forward. “Una storia piccola ma necessaria”, scrive parafrasando la Drndić. “Trieste è un caleidoscopio oscuro e ipnotico – continua – che racconta di personaggi vittime della storia che possono a stento riprendere fiato prima di perdere nuovamente il proprio equilibrio. E anche di chi, nonostante abbia fatto del male, sopravvive, alle volte restando impunito”.

Rachel Silvera

Pagine Ebraiche febbraio 2015

(23 gennaio 2015)