Falsa coscienza

vercelliFrancamente crea disagio ed imbarazzo vedere come in molte trasmissioni pubbliche, a partire dalla stessa Rai, le versioni complottiste sui tanti fatti criminali che costellano la nostra cronaca politica, trovino abbondante seguito. A tratti quasi morboso. Se poi si tratta di questioni di politica internazionale, le scempiaggini del “furbo” di turno sono garantite. Tra calcolato clamore, finto scandalo e falso dibattito, in un polverone che fa tanta audience quanto girare i contatori della pubblicità. Come se ci fosse qualcosa di cui discutere, partendo da questi atteggiamenti il cui unico obiettivo è, invece, quello di autoaffermarsi ripetendosi ossessivamente. Così, tra le altre, le letture “critiche”, di matrice “revisionista”, sulle cosiddette “versioni ufficiali” dell’uccisione dei redattori di Charlie Hebdo, dove le demenziali teorizzazioni di una colossale messinscena seguono a ruota quelle già espresse, divulgate, amplificate, riprodotte indefinitamente riguardo all’11 settembre 2001 (l’«Inside Job», secondo certuni), il mancato viaggio (e sbarco) sulla Luna, l’esistenza in vita di Elvis Plesley (che naturalmente “vive e lotta con noi”, chissà perché, tuttavia, nascondendosi o negandosi alla vista dei più) e quant’altro. A ben pensarci, c’è poco da riderci sopra. Del pari, va detto, alla scandalosa legittimazione che i talk-show, e i loro enfatici conduttori, stanno offrendo alle posizioni di aperto razzismo contro determinati gruppi bersaglio. Gli stranieri, così come i Rom nonché i Sinti, sono tra i prediletti, in questo tiro al piccione. Un target facilissimo perché indifeso. Il fatto che lo scandalo della gestione romana di una parte dei campi per “nomadi” sia tutta una creazione di “non nomadi”, i gaggiò, a beneficio delle proprie tasche, tanto per fare un esempio, è vicenda già consegnata all’oblio collettivo. Non di meno, l’odierna impronunciabilità dell’antisemitismo nei luoghi pubblici, a partire da quelli televisivi, non è per nulla una garanzia che quanto è (auto)censurato oggi lo sia anche in futuro. Quando una minoranza viene colpita, con il sostanziale assenso della maggioranza, silenziosa o rumorosa che sia, prima o poi è plausibile che tocchi anche agli “altri”. Lo scadimento della comunicazione collettiva, da quella praticata nei social network per arrivare alle espressioni quotidiane di senso comune, è sotto gli occhi di tutti. Non è fatto recente, trovando semmai negli anni Ottanta un suo primo tornate, quando iniziò un processo di “sdoganamento” di modi di dire, pensare e, in parte fare, gabellato come “libertà”: di espressione, di manifestazione del “pensiero”, di lotta all’odiato politicamente corretto, quest’ultimo inteso come deliberata mistificazione. Più che altro una gara al rutto libero, che ha poi trovato insigni manifestazioni in formazioni politiche con un ampio e solido seguito elettorale. Alla perdita di autonomia e di capacità di emanciparsi dei molti si è sostituita il “diritto” all’insulto, al sospetto come regola di vita, in altre parole la diffidenza che diventa immediatamente avversione un tanto al chilo. Non è un caso, peraltro, e non costituisce un problema esclusivamente italiano, trattandosi semmai di uno dei modi in cui l’Europa sociale, quella non delle élite e delle oligarchie auto-centrate ma delle comunità nazionali abbandonate sempre più spesso a se stesse, ha risposto alla crisi che da tempo sta vivendo: al senso della retrocessione sociale, alla percezione di una perdita di terreno, non solo sul piano economico, ha cercato una qualche forma di risarcimento riconvertendo il conflitto per il proprio riconoscimento in lotta contro i più deboli. Una delizia per i padroni (e i padrini) delle ferriere, che non chiedono altro, ossia che i “poveri” si scannino tra di loro. Che il fascismo eterno, quello che non necessita di manganello e di olio di ricino ma di aggressività verbale e prevaricazione culturale, si celi dietro queste forme e formule derisorie, scurrili, di falso virilismo politico, è cosa tanto evidente nei principi quanto negata, per le sue odiose e perniciose conseguenze, nei fatti. Una negazione dell’evidenza come dei diritti altrui che deriva dal compiacimento collettivo, poiché come tutte le banalizzazione farsesche, quelle trivializzazioni del pensiero che conducono verso la licenza per le persecuzioni – di qualsiasi genere esse siano, anche quelle più apparentemente innocue – esse richiedono di un pubblico di astanti plaudente e consenziente. La dietrologia ossessiva, il complottismo esasperato come anche i negazionismi assortiti, false vestali della “libertà di opinione” e dell’“esercizio del giudizio”, sono i vettori del pregiudizio totale. Peraltro, i criminali di massa, nell’età contemporanea, quella in cui per commettere un delitto collettivo devi avere dietro di te un congruo numero di consenzienti e plaudenti (coloro i quali ti danno il consenso e quindi la “legittimità” – “ho il voto del popolo, io!” e quindi l’investitura per fare ciò che voglio – nell’andare contro la legalità e il diritto) si presentano sempre come i liberatori dalla “menzogna del potere”. In un clamoroso ribaltamento orwelliano di ruoli, laddove «la pace è guerra, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza», così come recitavano i tre slogan dell’Ingsoc, il cosiddetto “socialismo inglese”, l’ideologia dominante nell’immaginario stato imperiale di Oceania, creato dalla fervida, ma purtroppo raziocinate, fantasia letteraria e politica dello scrittore britannico. Che aveva capito, ad onore del vero, molte cose, partendo dal principio della falsa coscienza, così espresso, nel 1893, da un pensatore tedesco a un suo omologo: «L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza falsa. Le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe più di un processo ideologico. Così egli si immagina delle forze motrici apparenti o false. Trattandosi di un processo intellettuale, egli ne deduce il contenuto, come la forma, dal puro pensiero, sia dal suo proprio pensiero che da quello dei suoi predecessori. Egli lavora con la sola documentazione intellettuale che egli prende, senza guardarla da vicino, come emanante dal pensiero, e senza studiarla in un processo più lontano, indipendente dal pensiero; e tutto ciò è per lui identico all’evidenza stessa, perché ogni azione, in quanto trasmessa dal pensiero, gli appare così in ultima istanza fondata sul pensiero». La falsa coscienza non è mai ignoranza ma sostituzione del principio di fantasia a quello di realtà. Laddove la prima viene popolata di fantasmi e la seconda svuotata di significati, per fare posto a deliri lucidi. Come un tempo l’antisemitismo era il socialismo degli imbecilli, rimanendo tale peraltro anche ai giorni nostri, oggi tuttavia, per sopraggiunto sovrammercato, c’è un antimperialismo degli idioti che trova nel complottismo la sua matrice più salda. Due atteggiamenti mentali, l’uno e l’altro, prima ancora che politici, destinati ad avere un grande futuro, costituendo l’ossatura della menzogna che si fa potere spacciandosi per libertà.

Claudio Vercelli

(8 marzo 2015)