Rav Toaff, Memoria viva

toaff_vignettaalbertinithumbA un mese dalla scomparsa il rabbinato italiano e tutta l’Italia ebraica si mobilitano nel ricordo del rav Toaff (1915-2015). Ieri in sinagoga e al cimitero ebraico livornese dove è sepolto un primo momento di commemorazione, questa sera alle 21 un nuovo omaggio nel Tempio Maggiore della Capitale.
Sul nostro notiziario quotidiano le testimonianze inedite dei rabbini Roberto Della Rocca, Amedeo Spagnoletto, Alberto Sermoneta, Adolfo Locci e del maskil Gadi Piperno,rielaborazione degli interventi tenuti in occasione del limmud in ricordo del rav Toaff organizzato al Moked di Milano Marittima.
Tante le voci raccolte in queste settimane dalla redazione: quelle dei rabbini che furono suoi allievi, di chi gli è stato al fianco nei lunghi anni del suo magistero e nella vita di ogni giorno, degli uomini e delle donne della “piazza”.

INTERVENTI DEI RABBANIM AL LIMMUD DI MILANO MARITTIMA

foto rav roberto della rocca piccola Rav Elio Toaff è sempre stato ai miei occhi uno stimolante enigma poiché la sua personalità e la sua figura evocano di volta in volta innumerevoli definizioni, mentre lui non si adattava mai pienamente a nessuna. L’ho sempre considerato un vero e proprio punto di riferimento per me e per la mia famiglia: è stato il Maestro di mio padre e mio, ed è sempre stata una forte presenza nei momenti più importanti della mia vita. Quando penso alle tappe che ha raggiunto nella sua vita, dalla laurea in Giurisprudenza, al suo precedente ruolo di rabbino capo nelle Comunità ebraiche di Ancona e Venezia, non posso che sentirlo come una figura guida profondamente vicino a me e al percorso di studi che ho intrapreso, avendo io ripercorso molte delle sue stesse scelte. In molti hanno mitizzato la sua figura come si mitizzano ed esaltano i tempi passati, e in realtà il rav è stato un grande modello pienamente rispondente alla propria generazione: quella del dopoguerra e della ricostruzione. Con la sua caratteristica ironia e la sua forza carismatica ha saputo convincere la gente usando la forza del sorriso. Si parla spesso di rav Toaff come una guida che ha saputo tenere unita la comunità italiana nelle sue diversificate articolazioni culturali e identitarie; non sappiamo però se quel che è stato, è dovuto grazie al suo grande carisma o anche al fatto che nell’ultimo cinquantennio del 20esimo secolo non vi erano ancora spinte identitarie estreme e radicali.
Oggi soffriamo infatti di una grande difficoltà: quella di costruire ponti e dialoghi. Ognuno preferisce curare il proprio orticello, la propria individualità e le proprie convinzioni, un pensiero che porta alla definizione della differenza tra il leader che per difendersi dal freddo si mette la pelliccia e colui che invece accende un fuoco per scaldare anche altri: c’è chi come Abramo si mette in gioco andando ad ogni costo verso gli altri e accogliendo i diversi nella sua tenda e chi come Noè preferisce salvare la propria famiglia e i propri adepti nell’arca per sfuggire al diluvio. Oggi si tende a prediligere la seconda opzione… anche perché si rischia di più di trasformarsi in naufraghi! E allora rav Toaff è ed è stato soprattutto un modello, un leader che si è dedicato a tempo pieno alla rabbanut, pur ricoprendo tante cariche e nonostante sia stato accusato spesso di soppesare una dimensione politica. Si è rappresentato ed è stato identificato come il punto di riferimento della comunità sia all’interno che all’esterno. Ed è sempre stato presente.
Ora che la dimensione comunitaria è cambiata e le problematiche sono diventate altre, credo però sia necessario chiederci nuovamente: quali sono le qualità che dovrebbe avere un rabbino di una comunità? La Torah (Bemidbar 27,15,11) ci fornisce una risposta singolare nel momento in cui Moshe deve trovare il proprio successore e dice al Signore: “Nomini l’Eterno, il Signore degli spiriti di ogni vivente, un uomo a capo della Comunità, il quale proceda davanti a loro e che rientri alla loro testa, che li possa far uscire e li possa far rientrare (sani e salvi), affinché la Comunità del Signore non sia come un gregge che non ha pastore”. Moshe specifica qui le doti che vorrebbe ritrovare nell’uomo designato e in questo passo l’Eterno viene appellato per la prima e unica volta nella Torah come “Signore degli spiriti di ogni vivente”. Una espressione che ha fatto pensare all’uomo che guida come a qualcuno che attraverso il proprio spirito riesce a comunicare con tutti i membri della Comunità. Secondo Rashì, l’implicito significato della preghiera di Moshe è questo: “Signore dell’Universo, Eterno che ha dato la vita a ogni carne, tu conosci le menti degli uomini e come la mente di uno differisca da quella di un altro. Nomina loro un capo che sappia accettare e capire i diversi intendimenti di ciascuno dei tuoi figli”. Una interpretazione che richiama al pluralismo che compone il popolo ebraico; commenta infatti Pinchas Peli: “Il vero capo non è l’uomo di una sola idea, ma colui che è capace di tollerare tutti i punti di vista. Un uomo quindi al di sopra della Comunità”. Giosuè, il successore di Moshe, non è però privo di spina dorsale o passivo, Rashi lo descrive come “un uomo che sa ergersi contro lo spirito di ciascuno di loro”. Un buon capo deve saper difendere le proprie idee ma deve essere anche capace, in determinati casi di cambiare idea e di avere una mente aperta e decisa. Moshe prosegue chiedendo che il suo successore sia un leader che sappia guidarli (alla guerra) e sappia riportarli (a casa). Era ben conscio infatti che una cosa è portare un popolo in guerra e un’altra è farlo uscire dalla guerra e riportarlo a casa (sano e salvo) e come questo ultimo compito sia molto più difficile. Ci si chiede infine che tipo di rapporto di dipendenza si debba creare tra una generazione e i suoi capi. Rabbì Yehudà Nessìaà e i Maestri discutono: il primo diceva ogni generazione dipende dalla sua guida (dor lefì parnàs), gli altri dicevano la guida dipende dalla sua generazione (parnas lefì dorò da Talmud ‘Arakhìn 17a).
Ma insomma, è la guida a doversi adattare alla propria generazione oppure è la generazione che deve adattarsi alla guida che si è data? Quando io e il rav Benedetto Carucci Viterbi iniziammo a studiare insieme, il rav Toaff ebbe un ruolo determinante nelle nostre scelte. Nessuno di noi due aveva intenzione di diventare un rabbino o di intraprendere la “carriera”; anzi, ci tenevamo a ribadire che avremmo studiato per cultura e per mitzvah. Lui ci tranquillizzò e ci sollecitò a studiare indipendentemente dalle scelte che avremmo fatto. E in questo modo ci portò agli esami di laurea rabbinica. Quando si interrompeva durante le lezioni per raccontarci di alcune sue esperienze rabbiniche ad Ancona (appena arrivato in piene leggi razziste) o a Venezia (quando faceva partire clandestinamente profughi ebrei per Israele), capivamo di avere di fronte a noi un grande leader e protagonista dei nostri tempi. E soprattutto quanto fare il rabbino fosse bello e stimolante…

Rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento Educazione e Cultura UCEI

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מה יפה דבר בעתוSpagnoletto
Oggi è Pesach sheni’ un giorno in cui per tradizione si usa mangiare un pezzo di mazzà in ricordo di coloro a cui si concedeva di celebrare il sacrificio pasquale un mese dopo la regola generale.
Mi lego a questo evento perché ci tengo a ricordare rav Toaff, che era protagonista ogni anno nel giorno dedicato alla preparazione delle mazzot a Roma. A tutti coloro che hanno frequentato il Collegio rabbinico è noto che i giorni precedenti a Pesach si organizzava la cottura degli shimmurim (le mazzot del seder) che si svolgeva nei locali della chavorà . Il moreno si infilava il sinale bianco e cominciava ad lavorare e noi studenti rubavamo con gli occhi. Fino al momento in cui arrivava il momento di impastare l’eruv. Quella mazza’ grande su cui viene fatta la berachà la sera di pesach al tempio e con la quale si istituisce l’eruv chazerod che consente di trasportare di shabbad in un luogo condiviso tra più proprietari. Una vera e propria arte fatta di pizzicotti all’impasto per evitare che si creassero sacche di lievitazione. Un cerchio di 30-35 cm di diametro spesso un cm e lavorato a mano. Grazie a Dio tante foto lo ritraggono di anno in anno mentre lavora alacremente e questa immagine rimarrà indelebile nel cuore di tanti.
Un rabbino come quelli di una volta, che univa la saggezza e i profondi studi all’esperienza pratica. Come testimoniano il suo trascorso di shochet quando era rabbino a Ancona e Venezia, e la sua capacità all’occorrenza di rimediare alle cancellature del Sefer Torà.
Ma torniamo a Pesach Shenì.
La Torà ci racconta nella parashà di Beaalotecha (Bemid. Cap. 9) di qualcuno che si recò da Moshè chiedendo la possibilità di non rinunciare alla presentazione del Korban Pesach, che, a tempo debito il 14 di nissan, non aveva potuto mangiare perché impuro. Moshè chiede ragguagli a Cadosh baruch hu, che gli trasmise la regola secondo la quale:
“Se uno di voi o dei vostri discendenti sarà immondo per il contatto con un cadavere o sarà lontano in viaggio, potrà ugualmente celebrare la pasqua in onore del Signore. La celebreranno il quattordici del secondo mese al tramonto; mangeranno la vittima pasquale con pane azzimo e con erbe amare; non ne serberanno alcun resto fino al mattino e non ne spezzeranno alcun osso. La celebreranno secondo come tutte le leggi della pasqua”.
Rileviamo una dinamica del tutto particolare che differisce da molti altri casi per cui vale la regola “עבר זמנו בטל קרבנו” – passato il tempo, è annullata l’offerta – secondo la quale non esiste la possibilità di recuperare dei precetti che per varie ragioni non abbiamo compiuto. La novità sta nell’intraprendenza di coloro che hanno chiesto con forza a Moshè: “perché dobbiamo rinunciare?” למה נגרע ? Come a dire: vogliamo essere parte della collettività che si riconosce e trova il suo momento di aggregazione identitaria nella celebrazione della pasqua. Una pretesa a essere considerati dentro invece che fuori, una richiesta di aiuto verso chi non ha avuto tentennamenti ed è dentro fin dall’inizio. La Torà vi include anche chi era in una strada lontana, ma Rashi ci ricorda che lontano può essere considerato anche chi si trovava semplicemente fuori dalla porta del Santuario. Una lontananza che non è fisica ma anche psicologica. Si può essere vicini, ma sentirsi lontani allo stesso tempo. Per tutti questi ecco che la Torà propone una seconda chance. Un mese dopo, possono accostarsi al rito. La Torà si rende anche conto che per loro bisogna considerare un percorso speciale.
Pesach sheni, ovvero il sacrificio pasquale posticipato di 30 giorni, ha delle regole proprie in parte differenti da quello “classico”. Una pasqua che dura un solo giorno, che non esclude il consumo anche di chamez oltre che di azzime e erba amara, non prevede l’allel e si può portare fuori di casa.
Ci si può immaginare quindi che il percorso di ricongiunzione con la comunità non passa per il “tutto e subito” ma per fasi di riavvicinamento progressive.
Vorrei per questo fare riferimento ad un passaggio della parashà di Emor che si legge questa settimana. Il brano che presenta le feste –moadim – apre con la segnalazione dello shabbat che ha status differente e per altro è richiamato in molti altri passaggi della Torà. Una particolarità che salta agli occhi del midrash e di Rashi che scrive:
“che c’entra lo Shabbat con i moadim? [risp.]Lo si inserisce in questo contesto per ricordarti che chi trasgredisce le feste è come se trasgredisse lo shabbat e chi osserva le feste è come se avesse osservato lo shabbat”.
A questo proposito rav Avraham Mashash del Marocco, nel suo commento Nishmat Avraham scrive che ha senso riguardo a chi fa teshuvà. Nel suo cammino chi ritorna, potrebbe decidere di iniziare ad avvicinarsi alle feste e pian piano arrivare allo shabbat. Quando la sua tesciuvà fosse sincera, pur rispettando solo i moadim il Cielo gli considererà come osservati tutti gli shabbatot passati. Secondo quanto dice Resh Lakish nel trattato di Yoma: “quanto è grande la Teshuvà che trasforma le trasgressioni compiute in meriti”.
Ecco quindi che impariamo anche da qui come il tragitto di ritorno è fatto di tappe. Credo che questo fosse anche lo spirito di Rav Toaff che sapeva riconoscere i sentimenti di ciascuno, sapeva come avvicinare i lontani e conosceva strada e tempi che conducono al ricongiungimento di ciascuno con la propria comunità.

Amedeo Spagnoletto, sofer

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Sermoneta piccolaPer oltre venti anni ho avuto l’onore di essere vicino a Rav Toaff, sia come allievo del Collegio rabbinico, che come chazan al Tempio Maggiore di Roma.
Egli teneva moltissimo alla chazanut e sosteneva che un vero chazan, si vedeva dal modo in cui leggeva la parashà; la “Torà è la base della nostra vita e il motivo della nostra esistenza!” Questo è ciò che ha sempre insegnato.
Nel primo anno di Collegio Rabbinico superiore, insieme ad altri compagni di classe, studiammo sotto la Sua guida il Libro di Bereshit, secondo il programma del corso superiore; egli sapeva trasmettere un sentimento particolare, nell’esporre quelli che erano i problemi inerenti la “questione della Genesi” e le varie “ipotesi documentarie” del libro.
C’era però una parte del libro, a cui Egli teneva di più dal punto di vista comportamentale dell’ebreo: questa parte sono i capitoli 23 e 24.
Nel capitolo 23, il testo narra di quando Abramo e Isacco, tornando dal sacrificio, trovano Sara morta e, Abramo dopo averla pianta, si occupa della sua sepoltura, facendo il possibile per seppellirla in un luogo appartato da altre salme.
La parola “velivkotah – e a piangerla” è scritta sul Sefer Torà, con la lettera caf più piccola rispetto al resto delle lettere.
Questo è perchè la Torà ci vuole insegnare che, anche davanti alla morte di una persona cara, come Sara poteva essere per Abramo, non si perde troppo tempo nel piangerla troppo, ma bisogna passare alle azioni; cioè fare la mizvà della kevurat ha met – sepoltura del morto.
Rav Toaff, quando spiegava questo brano non poteva non soffermarsi, sul famoso episodio di quando durante la seconda Guerra Mondiale, si arruolò con i partigiani e suo padre gli disse: “se vedi un morto e ti accorgi che è ebreo, preoccupati di dargli una lavata (rechizzà) e di seppellirlo nel più degno dei modi per gli ebrei”.
Quando tornò a casa dopo la guerra, raccontò ai famigliari, come si era salvato miracolosamente dalle mani dei nazisti. Suo padre allora esclamò a gran voce: “Sai perchè ti sei salvato? Perchè ti sei preoccupato di dare una dignitosa sepoltura ai morti ebrei!”.
L’altra parte il capitolo 24, narra di Abramo il quale, dopo aver seppellito Sara si dedica alla ricerca di una moglie per suo figlio Isacco e manda Eliezer, il suo fidato servo a cercarla presso i suoi parenti, in Mesopotamia.
Eliezer, dopo aver trovato la donna giusta, si presenta a casa di lei ed ai parenti dice: “fate per me chesed ve emet – un atto di bontà vera”, nel dirmi se siete d’accordo chè la ragazza vada in sposa al figlio del mio signore.
Rav Toaff spiegava che il “chesed ve emet” è la bontà spontanea, quella che si fa senza la presunzione di ricevere una ricompensa per ciò che si è fatto.
Ogni uomo fa qualcosa aspettandosi sempre un riconoscimento da parte di colui che la riceve, anche se inconsciamente; l’unico che non può ricompensare è il morto.
Perciò, sia da parte di un morto, sia per unire una coppia in matrimonio, si ricevono particolari ricompense, anzi tutt’altro; questo si chiama “chesed ve emet – la vera bontà”.
Le cose che sono particolarmente care ad un ebreo sono quella di seppellire i morti dando loro una degna sepoltura ebraica e quella di far sposare i nostri figli con un degno matrimonio ebraico.
Tutto ciò lo si fa, per far si di mantenere il nostro passato (attraverso le testimonianze delle lapidi cimiteriali) e garantire il nostro futuro attraverso la prosecuzione delle nostre tradizioni con una numerosa famiglia.
Quindi, attraverso questi due famosi capitoli del Libro della Genesi, Rav Toaff vedeva il destino del popolo ebraico che continua la sua specie attraverso quelle che sono le fasi naturali della vita dell’uomo e che un Rabbino, un Maestro di Israele, ha il dovere di mettere in pratica, facendo proprio come Abramo, adoperandosi con tutte le sue forze affinchè questi due concetti potessero acquisire fondamento.


Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna

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locci“Quando sarete entrati nel paese e vi avrete piantato ogni specie di albero da frutto…
(Vaiqrà 19:23).

Il Midrash (Vaiqrà Rabbà 25:3), attraverso una metafora, suggerisce che questo versetto rappresenti un possibile esempio di come noi dobbiamo, e possiamo imitare D-o: All’inizio della creazione del mondo D-o non si è dedicato altro che al piantare (alberi), com’è scritto “e l’Eterno D-o piantò un giardino in ‘Eden ad oriente” (Genesi 2:8). Non leggere Mikedem – a oriente, ma Mikodem – all’inizio. Così voi, quando entrerete nel paese, all’inizio non dovrete occuparvi se non del piantare (alberi).
Da questa interpretazione, tuttavia, possono sorgere diverse domande:
Perché è tanto importante piantare alberi?
Perché nel Midrash si afferma che l’azione di piantare alberi sia avvenuta all’inizio quando invece fu l’ultimo atto, come narrato nel secondo capitolo della Genesi?
Per quale motivo si lega – concettualmente – la piantagione nel giardino dell’Eden con quella all’ingresso in Eretz Israel?
Per rispondere a queste domande bisogna intendere che i due eventi, richiamati dal Midrash, siano avvenuti attraverso due momenti distinti, uno materiale ed uno spirituale.
Del racconto della Creazione, il primo capitolo della Genesi ne costituisce il primo momento. E’ la narrazione della preparazione di tutta la materia necessaria, ordinata nei sette giorni del Principio, per creare “ex-nihilo” la realtà in cui siamo stati posti. Nel secondo capitolo, ha inizio il secondo momento, in cui comincia la responsabilità dell’essere umano. D-o presenta davanti all’uomo tutto ciò che ha creato e gli ordina di continuare l’opera mostrandogli, attraverso la piantagione di alberi nel giardino dell’Eden, cosa si aspetta da lui.
L’ingresso in Eretz Israel, è anch’esso costituito di due momenti topici: uno ad opera di D-o e un secondo di responsabilità del popolo d’Israele.
Nel primo momento, è D-o che interviene con una serie di atti, in favore del popolo d’Israele (liberazione dalla schiavitù in Egitto con le dieci piaghe, il passaggio del mar Rosso, la promulgazione del Decalogo/dono della Torà, il peregrinaggio per quarant’anni nel deserto con tutto ciò che accadde in questo percorso), che ne ha permesso l’ingresso in Eretz Israel.
Nel secondo momento, sono i figli d’Israele che hanno il dovere di compiere quelle determinate azioni (mantenimento della Torà e delle mitzwoth in essa contenute, instaurare una vera giustizia sociale, far si che si costituisse una relazione di amore e fratellanza tra le tribù, essere un “lume per le genti”) che avrebbero portato alla creazione, in terra d’Israele, di una società ideale.
La realtà in cui viviamo, potrebbe dunque essere il risultato del susseguirsi di momenti diversi attribuibili a responsabilità diverse, in una sorta di relazione di trasmissione paragonabile a quella tra padre e figlio, tra maestro e all’allievo.
L’insegnamento di questo Midrash mi pare molto pertinente per tracciare, oggi nel giorni degli sheloshim, un ulteriore ricordo di Rav Elio Toaff.
Per tutto il tempo in cui ho avuto il merito di studiare e collaborare con lui, ho sempre avuto la sensazione che il suo insegnamento mi arrivasse non solo per mezzo dello studio sui libri ma anche attraverso l’esempio e l’esperienza.
Il raccontare le sue vicende rabbiniche ad Ancona, a Venezia e a Roma (“te un eri mica nato”), il ricordare la sua gioventù a Livorno insieme agli aneddoti divertentissimi sul “Sor Elia” (Rav Elia Benhamozegh), ha rappresentato il suo “piantare” in noi allievi e collaboratori, avviando così il primo momento della nostra recente storia ebraica in Italia.
A noi ora, nel secondo momento, sta la responsabilità di portarlo avanti e migliorarlo e, soprattutto, dimostrare a nostra volta di saper piantare…

Rav Adolfo Locci, rabbino capo di Padova

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gadiNon ho avuto il merito di poter studiare molto con rav Toaff poiché sono entrato nel corso superiore del Collegio Rabbinico quando ormai lui aveva smesso di insegnare. Tuttavia i ricordi che mi legano al “moreno” sono tanti. In particolare l’amicizia e l’affetto che lo legavano a mio nonno, Fernando Piperno z”l, dovuta a decenni di collaborazione per far risorgere la comunità ebraica di Roma dalle macerie della seconda guerra mondiale e della Shoà, si riversava in qualche modo anche verso di me. In assenza dei miei genitori o de miei nonni al tempio, capitava spesso che mia sorella ed io prendessimo la berchà da lui.

D’altra parte lui era anche il direttore del Collegio Rabbinico Italiano, e naturalmente per noi studenti la sua autorevolezza, ma anche la sua autorità, incutevano un certo timore. In adolescenza io miei compagni ed io studiavamo al Collegio anche dodici ore a settimana, e, una delle cose che ci rendeva gradevole passare tutto quel tempo al collegio, era che, tra una lezione e l’altra costruivamo una palletta fatta di carta e scotch da pacchi, e ci dilettavamo in intense e appassionate partite nel corridoio prospiciente l’aula magna. Naturalmente alcuni maestri non erano esaltati dall’idea che un gruppo di ragazzini giocassero a palla nei corridoi del collegio, ma se c’era una persona di cui avevamo paura quello era rav Toaff e cercavamo quindi di avere una sentinella che ci avvisasse del suo arrivo. Un giorno in cui eravamo pari e quindi non c’era nessuno in grado di farci da sentinella, nel bel mezzo di una partita rav Toaff entra nel corridoio. Noi raggelati, impietriti salutiamo “shalom rav”. Lui vede la situazione, fa un paio di passi e dà un calcio alla palletta infilando la pota.

Ricordo inoltre che con un mio compagno di studi fummo convocati da rav Toaff perché ci eravamo comportati, diciamo così, con troppa esuberanza. Potete immaginare la paura per quell’incontro. Tuttavia nell’incipit della reprimenda si contarono più battute e sorrisi che rimproveri. Naturalmente poi si fece serio e ci disse che al Collegio ci si deve comportare in un certo modo, ma certo non uscimmo traumatizzati da quell’incontro. A distanza di anni, ci è stato chiaro come lui avesse avuto la lungimiranza di comprendere come dodici ore di collegio a settimana ben valessero qualche calcio ad una palletta, anche negli augusti corridoi del collegio rabbinico.

Se si pensa alla figura di maestro nella storia ebraica un ruolo di assoluta prominenza spetta senz’altro a due personaggi complementari nella loro grandezza: Moshè rabbenu e rabbì Aqivà. Il primo è il Maestro per eccellenza, colui che ha ricevuto e trasmesso la Torà. Il secondo è colui che a distanza di tempo era diventato il collettore di tutti gli insegnamenti della Torà orale. Infatti nel trattato di Sanhedrìn (86a) troviamo scritto: un insegnamento di mishnà anonimo (non associato ad altro rabbino) è da attribuire a rabbì Meìr, uno di toseftà a rabbì Nechemià, uno di Sifrà a rabbì Yehudà, uno di Sifrè a rabbì Shimòn e tutti sono detti coerentemente all’insegnamento di rabbì Aqivà.

Il midrash lega più volte questi due grandi maestri. In uno di questi, molto famoso riportato in Menachòt 29b, Moshè chiede al Signore il senso dei taghìm, quelle corone poste su alcune lettere della Torà, e gli viene risposto che un uomo interpreterà da questi mondi di leggi. Moshè chiede di capirci di più e viene “teletrasportato” nella yeshivà di rabbì Aqivà il quale sta spiegando queste regole e Moshè ci capisce ben poco. Ad un certo punto uno studente chiede l’origine di una certa regola e rabbì Aqivà risponde “è una regola data a Moshè sul Sinai”
Rabbì Aqivà era quindi il campione della Torà orale per la sua particolare abilità di imparare dalle coroncine poste sulle lettere. Secondo alcuni maestri questa abilità gli veniva dal fatto di essere figlio di convertiti.

Nel libro Megallè ‘Amuqòt di Rabbi Natan Shapira (Polonia 1585-1633) viene data una spiegazione di questo legame. I taghìm, le coroncine di cui si parla sopra, sono fatti come piccole ו (lettere waw) poste su alcune lettere. All’inizio della parashà di Pequdè Moshè fa i conteggi delle risorse impiegate per la costruzione del Tabernacolo. Tra questi ci sono le risorse del mezzo siclo che facevano in modo che ogni pezzo del Tabernacolo fosse associato ad un’anima degli ebrei presenti nel deserto, cosa che vale anche per ogni lettera della Torà. Moshè si ritrova in più 1775 sicli che non sa a chi associare. Fu l’anima di rabbì Aqivà a spiegargli che quelle parti erano da associare alle anime delle persone che si sarebbero convertiti all’ebraismo. Moshè usò quei sicli per costruire i wawim (gli uncini delle colonne), che, per la loro forma, sono facilmente collegabili ai taghim delle lettere essendo anch’essi come detto delle piccole waw. Come i wawim del tabernacolo sono associati alle anime dei convertiti, così lo sono le piccole waw poste sulle lettere della Torà, e quindi solo un figlio di convertiti come rabbì Aqivà poteva essere in grado di interpretarle,

Dunque Rabbì Aqivà aveva una straordinaria capacità creativa nell’interpretare la Torà che ne fanno il campione della Torà orale. Non a caso il giorno della sua morte naque rabbì Yehudà Hanasì che fu colui che mise per iscritto la Torà orale (Midrash Rabbà, Chayè Sarà 58).

Rav Toaff ha avuto la grande capacità di saper leggere il suo tempo e di comprendere in profondità una comunità come quella di Roma. Questo gli ha permesso di esserne la guida indiscussa per oltre cinquant’anni nei quali ha saputo dirigere ed innovare con grande capacità e con straordinario coraggio.

Gadi Piperno, maskil

IL RICORDO DEGLI ALLIEVI

Tra i desideri espressi dal rav Elio Toaff (z.z.l), 1915-2015, c’era quello di avere, nell’ora dell’estremo saluto, i suoi allievi attorno a sé. Quegli allievi che aveva formato negli anni del Collegio Rabbinico e che avevano poi intrapreso la professione. Chi a Roma, chi altrove, ma sempre serbando un debito di riconoscenza nei confronti del Maestro. Gli allievi di allora, i rabbini di oggi, sono accorsi in massa a Livorno per testimoniare il loro dolore. E a Pagine Ebraiche hanno raccontato il ruolo del rabbino emerito su quelle che sono state le loro scelte e le loro convinzioni. Tanti tasselli, situazioni circoscritte e suggestioni, che ricostruiscono l’impatto di un Maestro capace di incidere non solo nei momenti straordinari, ma anche nella quotidianità.

(Interviste a cura di Adam Smulevich)

Rav Di Segni: “Ho imparato dalle sue dimissioni”

foto rav di segni piccola “Sono dell’idea che l’immagine del rav Toaff sia da approfondire in modo più completo. L’incontro con il papa in sinagoga è stato un momento importante, ma non riassume la sua biografia. La sua è infatti la storia di una figura che ha segnato l’ebraismo italiano per almeno mezzo secolo e che sarà impossibile dimenticare. Rabbino capo di Roma, prima ancora rabbino ad Ancona e Venezia, nato e cresciuto in una città dalla significativa tradizione ebraica come Livorno, dove ha voluto fare ritorno per riposare al fianco della moglie. Parlare del rav Toaff vuol dire addentra rsi in questo mondo: soffermarsi sui singoli episodi, ma abbracciare l’intera esperienza. L’esperienza di un uomo straordinario ed efficace anche nella quotidianità”. Rabbino capo di Roma dal 2001, rav Riccardo Di Segni deve al suo predecessore molti insegnamenti. Anche nel momento, non semplice, del passaggio di testimone. “Il giorno in cui rav Toaff ha deciso di smettere ci ha impartito una lezione. Dopo un passaggio di consegne pressoché fulmineo, è infatti scomparso dall’ufficio lasciando carta bianca a chi sarebbe seguito. Quando si lascia un lavoro, si può diventare un sostegno fondamentale per chi segue, ma alle volte anche un vincolo. Quella del rav Toaff è stata una decisione rispettabile”.
Collegio Rabbinico, è il biennio 61-62 e il rav Di Segni, alle soglie del bar mitzvah, studia in una classe per principianti. “Ricordo – sorride – che avevamo materie e insegnanti particolarmente ostici. Tutti tranne rav Toaff, che portava sempre una nota di brio e simpatia. Arrivava alle tre del pomeriggio, entrava nell’aula e si fumava un sigaro. Lo prendeva come un momento di serenità”. Ma l’umore cambiava drasticamente, prosegue rav Di Segni, di fronte a chi metteva in discussione l’utilità e le finalità del Collegio. “È un’istituzione che ha sempre difeso con forza, riuscendo tra l’altro a sfornare una quantità rilevante di rabbini. Ricordo delle scenate clamorose, frutto della consapevolezza che quello fosse, ed è tuttora, un asse portante dell’ebraismo italiano”. Tra le caratteristiche più significative del rav Toaff, sottolinea il rabbino capo, anche la meticolosità e l’attenzione al dettaglio. Una capacità constatata nel periodo in cui rav Di Segni redigeva gli atti del tribunale rabbinico, in particolare dei divorzi. “Il rav controllava lettera per lettera, affinché non ci fossero errori. Anche quella è stata una scuola importante”.
Tra i due, e anche tra le rispettive famiglie, un rapporto di amicizia proseguito anche dopo la cessazione del mandato. “C’è sempre stato un forte affetto, dato anche dal fatto che mio padre Mosè conosceva il rav Toaff da una vita, sedendo nel consiglio comunitario in occasione del suo arrivo a Roma e per altri anni ancora. Ho sempre frequentato con piacere casa Toaff e i nostri incontri – conclude rav Di Segni – sono sempre stati all’insegna del piacere di ritrovarsi”.

“Rifiutava le barriere, lavorava per il dialogo”

Piattelli rav faccia piccolo La politica di rav Toaff è sempre stata quella di tenere tutti assieme. ‘Pochi ma buoni’, uno slogan che si sente sempre più spesso, non si sarebbe sposato con la sua filosofia”. A parlare è rav Alberto Piattelli, primo studente laureatosi rabbino sotto Toaff assieme al rav (e futuro cognato) Vittorio Della Rocca. Suo segretario personale fino alla cessazione del mandato, rav Piattelli lo avrebbe sostituito per tre mesi, nel
1973, quando rav Toaff fu impossibilitato per ragioni di salute. “L’approccio alla Comunità di rav Toaff era esemplare. Vi si rivolgeva con il sorriso e ogni persona veniva ricevuta nel suo studio con un atteggiamento di liberalità e comprensione. Sia comunque chiaro – sottolinea – che questo non ha mai significato una liberalità sul piano dell’ortodossia”. Mezzo secolo assieme. Prima da studente, quindi da assistente, poi da collega. Ma anche da amico. “Abbiamo girato mezzo mondo insieme e tra noi – ricorda – il dialogo è sempre stato franco e diretto”. Da testimone oculare del magistero del rav nella sua quotidianità, il rav Piattelli invita quindi a un approfondimento della sua azione non tanto “nei grandi eventi noti a tutti”, quanto piuttosto nella sua azione costante sulla vita comunitaria. “La mia impressione – spiega – è che gli incarichi di rabbino capo precedentemente svolti a Venezia e Ancona siano stati decisivi nel suo modo di agire. È stato là, a confronto con realtà così diverse, ma da sempre protese nel dialogo verso il mondo esterno, che si è formata la sua visione di rabbino. Romano, ma soprattutto italiano”.

“Le ore più difficili. E la telefonata di Pertini”

rav vittorio della rocca piccola È il 9 marzo del 1951, il giorno dell’ultimo saluto al rabbino capo rav David Prato. Nella folla, immensa, che si riversa nel quartiere ebraico anche un giovane Maestro in servizio a Venezia di cui si dice un gran bene. Quel Maestro è Elio Toaff ed è in quella circostanza che il 18enne Vittorio Della Rocca, futuro rabbino, insegnante e cantore nella Capitale, ha modo di conoscerlo una prima volta. Un incontro che si rinnoverà cinque mesi dopo quando rav Toaff prenderà servizio in città. Tempio Maggiore, una giornata di agosto.
Tutto è pronto per l’arrivo della nuova guida. Officiante di turno è Marco Veneziano, grande amico di
Vittorio. Ma l’emozione incalza e l’incarico viene ceduto a Della Rocca. Che oggi annota: “Andò tutto bene.
Ricordo che proprio allora ricevetti il primo ‘chazak’ (una tipica formula di congratulazione ebraica, ndr) dal rav Toaff”. Fu quello l’inizio di un rapporto, umano e professionale, ad altissimo livello. “La nostra è stata una grande amicizia. Certo non sono mancati alcuni screzi, ma era inevitabile in una così stretta e lunga frequentazione. Eravamo molto legati”, spiega rav Della Rocca. Piccoli e grandi momenti di Storia scorrono davanti ai suoi occhi. Nelle ore drammatiche che seguirono l’attentato al Tempio maggiore del 9 ottobre 1982, tra i testimoni della telefonata di Pertini a Toaff c’era proprio rav Della Rocca: “Gli rispose con freddezza e lo invitò a desistere dal suo intento. Non voleva che partecipasse ai funerali. Due testimoni di quell’accaduto: io e l’avvocato Dario Tedeschi”. Rav Della Rocca fu poi inviato dal rabbino capo a parlare alle molte centinaia di ebrei romani che, ritrovatisi nel quartiere, si interpellavano su quale iniziative adottare. “Mi disse: vai fuori e parlagli, tu che hai molto ascendente su di loro. E digli che stasera ci sarà una riunione al Tempio, dove sono tutti invitati. In quell’occasione sarò io a dirgli cosa fare l’indomani”.

“La mediazione, il suo segno distintivo”

foto rav carucci piccola “Spesso mi sono posto la domanda: chi è il mio Maestro? E la risposta è sempre stata: rav Toaff. Sia per il fatto che ho studiato con lui, ma anche perché il suo modello di rabbinato è quello a cui mi sento più vicino”.
Così rav Benedetto Carucci Viterbi, preside delle scuole ebraiche di Roma. Studente del Collegio Rabbinico Italiano nel decennio che va dal 1982 al 1992, rav Carucci enfatizza tre aspetti del magistero di rav Toaff.
In primis la sapienza, quindi la forte carica d’ironia, infine l’impegno profuso per la kehillah romana. “L’ironia, un tratto noto del suo carattere, è un elemento su cui vale la pena riflettere. Dobbiamo infatti uscire dal cliché un po’ troppo abusato della bonarietà toscano-livornese. La sua ironia – spiega rav Carucci – è piuttosto frutto di una capacità articolata: quella di osservare le cose, di prenderle seriamente, ma anche di lasciare una certa distanza tra sé e le stesse”.
Altra concetto chiave è quello di mediazione, in particolare tra le diverse anime della Comunità. Una prospettiva che – a detta del rav – negli ultimi tempi sembra essere un po’ mancata.
“Al giorno d’oggi viene sottolineata di più l’identità forte, mentre la mediazione viene percepita come un’abdicazione. E invece la mediazione è una identità ben definita, e rav Toaff ne è stato un esempio”. Un tratto distintivo che avrebbe caratterizzato anche gli anni di studio al Collegio e la trasmissione della conoscenza dal Maestro agli allievi. Racconta rav Carucci: “Pur essendo influenzato dal misticismo, rav Toaff sapeva proporre anche approcci più razionalistici. La ricerca della mediazione era una sua costante anche in questo ambito”. Sul piano personale un aspetto ulteriore a legarlo al Maestro. E cioè il fatto che sia stato il padrino di più circoncisioni familiari: la sua, ma anche quella dei suoi figli.

“Sofer anche grazie a lui”

Spagnoletto “Tra i tanti insegnamenti trasmessi dal rav, spicca quello di non andare troppo per il sottile nel momento in cui c’è da integrare un nuovo rito, un nuovo uso, una nuova consuetudine. Questo perché nel passaggio da una generazione all’altra inevitabilmente qualcosa si perde, ed è una perdita incommensurabile, ma se aggiungiamo qualcosa ci sembrerà di aver lasciato la stessa quantità di tradizioni che abbiamo ereditato da chi è venuto prima di noi”. A parlare è Amedeo Spagnoletto, sofer, di cui rav Toaff fu insegnante al Collegio Rabbinico dal 1982 al 1986. Tra i vari ricordi che affiorano il piacere di condividere quei momenti di studio a casa del rav, tra testi e oggetti ebraici dal valore inestimabile.
“Testi che erano di per sé una lezione”, spiega Spagnoletto. Che poi aggiunge: “È un fatto che mi è sempre rimasto impresso, anche alla luce di quelli che sono stati i miei impegni professionali e la mia passione per tutto ciò che è Judaica”.
Nel momento stesso in cui Spagnoletto manifestò i primi segni di interesse verso la soferut, tra l’altro, fu proprio il rav a fotocopiargli interamente un libro che trattava in modo esaustivo del tema. “L’aveva fatto per me, ben sapendo che nel contesto generale non c’erano tanti strumenti bibliografici. Fu rav Toaff, spontaneamente, a offrirmi il primo assaggio della disciplina. Non l’ho mai dimenticato”.

“Mio padre. Dal Rav il ricordo più bello”

Gianfranco Di Segni piccola Primi anni Novanta. Per rav Gianfranco Di Segni, oggi coordinatore del Collegio Rabbinico Italiano, arriva il momento di sostenere l’esame di ammissione ai corsi superiori. La prova si svolge a casa Toaff, i Maestri preposti al giudizio riuniti in salotto per valutare il candidato. Quel giorno si aprono due porte: quella del Collegio, destinato a diventare un punto di riferimento nella sua vita. E quella di via Catalana, dove il rabbino capo terrà per anni corsi e lezioni che si imprimeranno nel percorso formativo degli studenti. “Ritrovarsi a casa del rav Toaff dava una connotazione particolare a quegli incontri: meno formale, più amichevole. Hanno lasciato senz’altro una traccia”, ricorda il rav Di Segni. Tra i tanti momenti scolpiti nel cuore la commozione del rav Toaff in occasione della scomparsa dell’avvocato Ruggero Di Segni, padre di Gianfranco e vicepresidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, cui il rav avrebbe dedicato un ricordo particolarmente sentito all’interno del Tempio Maggiore. “Avevo 13 anni e rimasi molto colpito dalle sue parole. Fu per me di grande conforto” spiega rav Di Segni, e aggiunge: “Credo che la figura di rav Toaff e la sua vicinanza alla mia famiglia abbiano sicuramente influito sulla decisione, anni dopo, di intraprendere gli studi rabbinici”. Mentre, per quanto concerne i momenti di studio vissuti assieme, viene sottolineata la capacità del rav Toaff di intercalare le spiegazioni dei testi con racconti legati alla propria esperienza. Un merito da ascrivergli perché sentire dalla voce dei Maestri il modo in cui hanno vissuto, confrontarsi con la loro quotidianità, “rappresenta un aspetto fondamentale nella fase di apprendimento”.

“Suo il dono che mi cambiò la vita”

Sermoneta piccola È il giorno del bar mitzvà, parashah di Behaalotecha. Una parashah tra le più difficili, con molte chiamate al Sefer. Si avvicina il rav Toaff: “Complimenti, hai letto bene, vorrei sentirne altre. Ma prima di tutto vorrei che venissi domani mattina in Tempio per indossare talled e tefillin”. Richiesta accettata, cui ne seguirà un’altra analoga il giorno successivo. C’è scuola, ma è un appuntamento da non mancare. Quel giorno Alberto Sermoneta, oggi rabbino capo di Bologna, riceve dal rav Toaff un Pentateuco in regalo. Insieme a un insegnamento per la vita: “Questo libro deve diventare un punto di riferimento. E ogni mattina devi indossare talled e tefillin”. Sono parole che resteranno nel cuore e che ne condizioneranno la vita, gli obiettivi, la scelta rabbinica. A fare da sprone, costantemente, il rav Toaff. “Ricordo che la prima volta che suonai lo shofar si complimentò con me. Ma allo stesso tempo volle sottolinearmi come le varie suonate dello shofar dovessero essere tutte uguali senza distinzione di lunghezza. In generale, per la mia esperienza, se tutto andava bene difficilmente arrivava un’approvazione. Diversamente, se commettevo degli sbagli, me li faceva notare. Ma sempre da parte. Ho imparato molto da quei momenti. Possono apparire piccolezze, ma hanno lasciato un segno”. A contatto con il rav Toaff, prosegue rav Sermoneta, era infatti possibile apprendere non soltanto attraverso i libri ma, soprattutto, dall’esperienza quotidiana. “Tra le cose che mi ha insegnato il fatto che un Maestro abbia il dovere di darsi da fare e talvolta appigliarsi anche alle sottigliezze della Halakhah. Proibire è infatti molto più facile che permettere. Ma lo sforzo di un rabbino, nei limiti del possibile, deve essere proteso verso l’apertura”.

Maestro di umanità

Momigliano Il sentimento che mi sento di esprimere nei confronti del rav Toaff è innanzitutto di riconoscenza. Per quello che ha fatto come rabbino capo a Roma, ma anche come coscienza spirituale e morale di tutto l’ebraismo italiano. Non sono stato suo allievo, ma questo non mi impedisce di serbare ricordi belli e significativi sui nostri incontri. Primo tra tutti quello legato al giorno in cui sono diventato rabbino, una volta concluso il percorso di formazione alla scuola Margulies-Disegni di Torino sotto la guida dei miei Maestri, rav Sergio Sierra e rav Kurt Moshè Arndt. Quel giorno, 30 anni fa, c’era proprio il rav Toaff ad esaminarmi, affiancato in commissione, oltre che dal rav Sierra, da rav Giuseppe Laras, rav Elia Kopciovski e rav Jacov Malki. Il ricordo del momento – l’emozione del traguardo raggiunto, l’inizio di una nuova avventura – rimarrà indelebile nel mio cuore. Pur frequentandolo meno di altri colleghi, ho sempre trovato nel rav Toaff un punto di riferimento e non sono mancate occasioni di confronto in cui ha saputo ascoltarmi e offrirmi i giusti consigli. Il giorno in cui venne in visita a Genova fu una festa per tutta la Comunità, che l’accolse con slancio e calore. Mi piace infine ricordare un convegno di rabbini europei a Venezia, alla fine degli anni Ottanta. Rav Toaff si premurò di presentare ciascuno dei componenti della delegazione italiana, aiutando chi – come me – non era ancora pratico di questi appuntamenti. Fu un momento molto bello, segnato da simpatia e umanità.

Giuseppe Momigliano, presidente Assemblea Rabbini d’Italia

“LEADERSHIP, IMPEGNO, DIALOGO” – IL RICORDO DI SERGIO DELLA PERGOLA

della pergolaRipercorrendo, a breve distanza dalla conclusione del centesimo anno di vita del Rav Elio Toaff (zzl) che ci ha lasciati da pochi giorni, il testo di un mio intervento di dieci anni fa per onorare il suo novantesimo compleanno, non sono solo le emozioni personali a riaffiorare.
A fronte dell’esistenza immensa di un rabbino che ha affrontato con coraggio e slancio un secolo intero di sfide e di rivolgimenti epocali, il fattore che ha caratterizzato il nostro ultimo decennio è la difficoltà di agire e di trovare risposte adeguate alle sfide che ci stanno di fronte. Per questo credo sia utile a onorare la sua memoria rileggere quelle parole di dieci anni fa, che, va detto con inquietudine e preoccupazione, nulla hanno perso della loro attualità. Una bella pagina della Mishnà – Le Massime dei Padri (5, 24) – descrive le diverse età del ciclo della vita umana. A 90 anni, dice il testo ebraico – lasúach – ossia per andare ricurvi: osservazione certo non appropriata al nostro Maestro – sempre retto e ben presente. E allora, con una facile manipolazione del testo ebraico, noi diremo: a 90 anni – lasíach – ossia per il colloquio: quel colloquio nel quale ci siamo qui riuniti per onorare Elio Toaff e per esaminare insieme diverse angolature del pensiero ebraico alla luce del tema centrale: Sionismo e Religione. Vorrei qui brevemente delineare una panoramica della situazione del mondo ebraico contemporaneo, delle sue risorse, delle sue sfide e dei suoi obiettivi, mettendo altresì in luce alcuni aspetti dell’opera personale del Rav Toaff che dimostrano in maniera esemplare quale possa essere il contributo del singolo nel contesto del collettivo. Secondo il Rapporto per il 2004 del JPPI – un centro studi indipendente di Gerusalemme – “alla luce delle tendenze in corso e di quelle ragionevolmente prevedibili, il futuro degli ebrei nel mondo non è assicurato anche se esistono le premesse per uno sviluppo rigoglioso.
Per riuscire, sono necessari grandi investimenti di energie, è necessario saper assumere con coraggio decisioni cruciali, e va formulata con oculatezza e fermezza una politica strategica a lungo termine”. Nell’epoca della globalizzazione, il popolo ebraico in un certo senso ha raggiunto livelli di prosperità e di sicurezza senza precedenti nella sua lunga storia di 4000 anni. Nel corso del Ventesimo secolo – dopo la catastrofe della Shoah, l’indipendenza dello Stato d’Israele riportava impetuosamente nella storia gli ebrei come attori sovrani e non solo come variabile dipendente alla mercé delle volontà di altri e più forti protagonisti.
Lo Stato ebraico progrediva rapidamente e si associava al gruppo delle società maggiormente sviluppate. E tutto ciò mentre Israele assorbiva una massa di milioni di immigranti spesso provenienti da ambienti ostili, bisognosi di aiuto morale
e materiale. La società israeliana è così cresciuta fino a costituire il 40-45% del totale dei 14 milioni di ebrei che oggi vivono nel mondo. Da parte sua, la Diaspora ebraica veniva a concentrarsi sempre più nei paesi maggiormente progrediti e democratici, dove godeva ampiamente dei diritti civili e di possibilità quasi illimitate di mobilità sociale. La presenza ebraica nei grandi centri economici e culturali del mondo occidentale dimostrava la potenza delle forze di attrazione e di rigetto capaci di stimolare grandi migrazioni a livello planetario. Negli ultimi anni, poi, è stato finalmente riconosciuto
pubblicamente il dovere di ricordare l’esperienza della passata emarginazione e distruzione delle comunità ebraiche, e sembra sia stato recepito definitivamente, sia pure tardivamente, l’insegnamento che la memoria è doverosa per prevenire il ritorno a quelle tragiche aberrazioni. Come abbiamo visto in occasione del 60° anniversario della liberazione di Auschwitz,
l’esperienza ebraica è stata ammessa a far parte del nucleo più qualificante dell’identità europea. Di fronte a questi innegabili successi oggi otto importanti sfide, vecchie e nuove, incombono sul presente e sul futuro del popolo ebraico: (1)
Non è ancora del tutto superata la necessità di provvedere alla sicurezza e alla tutela fisica di comunità ebraiche situate in ambienti ad alto rischio. Questo problema, che era ben più acuto in passato, in gran parte è stato risolto grazie all’emigrazione di milioni di ebrei verso lidi più sicuri.
(2) Il conseguimento di una permanente condizione di pace e di sicurezza continua a costituire la massima priorità per lo Stato d’Israele.
(3) La sovranità dello stato ebraico va saputa gestire attraverso un delicato equilibrio fra le necessità irrinunciabili nel campo della difesa e degli interessi politici reali dello stato, ma sempre alla luce di elevati valori morali e sociali ebraici, e approfondendo i legami ideali fra Israele e la Diaspora.
(4) Va incoraggiata la continuità spirituale e fisica del collettivo ebraico, rinforzando le basi dell’identità culturale, il rispetto di se stessi, le conoscenze del patrimonio di valori, la creatività, la partecipazione alle iniziative comunitarie; e va sostenuto lo sviluppo demografico attraverso il naturale processo di avvicendamento delle generazioni minacciato dall’invecchiamento e dalla crescente assimilazione.
(5) Va tutelata l’unità e la solidarietà ebraica, incoraggiando il dialogo interno, la reciproca comprensione e tolleranza, costruendo con pazienza il consenso e la comune azione nello spirito di Clàl Israél – la comunione di Israele – e favorendo la coesistenza di un ampio spettro di idee e di forme di espressione ebraica.
(6) Ci si deve ancora misurare con forme a volte subdole, a volte arroganti di ostilità nei confronti degli ebrei e dell’ebraismo, spesso dietro il trasparente paravento dell’invettiva e del boicottaggio nei confronti dello stato d’Israele; e va pazientemente spiegata la posizione ebraica rifiutando le forme di intolleranza intellettuale e aggressione fisica che perdurano dal passato o proliferano nel presente.
(7) Va moltiplicato lo sforzo di proiettare i valori eterni dell’ebraismo nell’ambito del dialogo con le altre grandi matrici religiose, culturali e sociali, incoraggiando la conoscenza delle fonti ebraiche e apportando attraverso il Tikkún Olàm – la miglioria del mondo – il contributo peculiare dell’ebraismo nell’illuminare la condizione umana nella società globale.
(8) E finalmente vanno formate e sviluppate quelle risorse umane altamente qualitative che si assumano la responsabilità nel condurre a buon fine questi compiti non facili. Nel ripercorrere quest’ordine del giorno strategico, non si può fare a meno di notare come Elio Toaff nel suo lungo impegno di studioso e di maestro, di compagno e di guida, abbia personalmente testimoniato la sua alta sensibilità e abbia ottenuto grandi esiti riguardo a ognuno dei grandi temi ora enunciati. Come non ricordare, dunque, il coraggioso intervento di Elio Toaff, anni fa, volto a salvare l’ormai quasi estinta comunità ebraica dello Yemen, oggi trasferita quasi tutta in ambienti meno precari. Nel corso degli anni Toaff ha saputo operare con discrezione e costanza a favore della sicurezza dei suoi fratelli in Italia e in Israele. La sua preoccupazione per la difesa dello Stato ebraico e delle comunità in Italia e la sua militanza nella Resistenza hanno sempre fatto corpo unico con la sua lotta per la pace. Riguardo al tema della continuità e dell’unità della compagine ebraica, in un testo presentato al Congresso mondiale
per l’Educazione ebraica nella diaspora, tenuto a Gerusalemme nel 1947, l’allora trentaduenne Elio Toaff così si esprimeva a proposito dell’educazione ebraica in Italia: “La nostra educazione deve servire da ponte sull’abisso che generalmente separa studi profani e studi religiosi, lingua italiana e lingua ebraica, cultura umanistica generale e cultura ebraica, identità religiosa e identità nazionale. Queste dualità sono in contrasto con la nostra concezione unitaria della cultura ebraica”.
Ripercorriamo l’attività di Toaff efficace divulgatore verso il grande pubblico non-ebraico della saggezza e dell’immagine dell’ebraismo, e combattente contro il pregiudizio attraverso le pagine del suo indimenticabile diario Perfidi Giudei, Fratelli Maggiori ma anche attraverso le onde radiofoniche con le popolari trasmissioni di Ascolta si fa sera. Ricordiamo
il memorabile abbraccio con Papa Giovanni Paolo II nel Tempio Grande di Roma subito dopo il quale Toaff dichiarò: “In quel momento ho sentito che qualcosa era cambiato per sempre”. Ed è possibile che questo ci abbia resi testimoni di uno dei grandi e sperabilmente irreversibili momenti di un intero millennio. E infine, per quanto riguarda la preparazione di nuovi quadri dirigenti, l’insegnamento di Rav Elihú Refaèl Azrièl ben Hachachàm Shabbetài Toaff al Collegio Rabbinico Italiano
ha creato le basi del Rabbinato italiano, qui riunito quest’oggi, e sulle cui spalle poggia l’avvenire di una nuova generazione di giovani e la continuità dell’ebraismo italiano. Un ebraismo, quello di Elio Toaff, nel quale Sionismo e Religione non possono venire disgiunti, mentre la militanza per i valori della società civile e il dialogo con le altre grandi matrici religiose formano parte integrante della sua coscienza di uomo dalla fede incontaminata e dall’entusiasta
capacità di comunicare agli altri il suo mondo interiore.
In questa gamma straordinaria di attività e nell’esempio personale di Elio Toaff si compendia, dunque, tutta la problematica contemporanea dell’essere ebrei, nella fedeltà alle antiche tradizioni e nella partecipazione alla vita collettiva, e si intravede il vero spirito delle soluzioni e la promessa di successo di fronte alle sfide del futuro.

Sergio Della Pergola, Università di Gerusalemme

“LA SUA FIDUCIA, UN ONORE” – IL RICORDO DI RENZO GATTEGNA

gatRav Elio Toaff ha lasciato segni indelebili nella mia vita, in quella degli ebrei romani e in tutto l’ebraismo italiano.Soprattutto nei giovani, ai quali ha sempre dedicato tempo e attenzioni.
Aveva una personalità di alto valore che incuteva rispetto e al tempo stesso ispirava simpatia.
Aveva un eloquio semplice e schietto, senza peli sulla lingua, ma sempre rispettoso della dignità di tutti. È stato rabbino capo di Roma per 50 anni e ha sempre saputo essere un leader carismatico, capace di andare controcorrente e di trascinare su posizioni più avanzate tutti coloro che avevano imparato a fidarsi del suo istinto e del suo fiuto.
Certamente, con lui, la Comunità di Roma e tutto l’ebraismo italiano si sono risollevate dopo la Shoah e hanno ritrovato il coraggio di confrontarsi con chiunque senza soggezione e senza timori.
Era infatti sostenitore di un ebraismo che fosse in grado di esprimere sempre e comunque i propri valori e che non si isolasse dal resto della società.

Un breve riferimento di carattere personale: con lui ho sostenuto il bar mitzvà, la maggiorità religiosa ebraica, ed è stato proprio il rav a celebrare il mio matrimonio.
Ne è nato un rapporto di stima e di fiducia tanto che, da allora, sono diventato una delle poche persone con le quali voleva ragionare quando doveva prendere decisioni complesse e delicate.
Da sempre ho percepito questa sua fiducia come un grande privilegio e un grande onore.

Grazie rav, per tutto quello che hai fatto. Sia benedetto il tuo ricordo.

Renzo Gattegna, presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

“QUEI CAFFE GUARDANDO IL MARE” – IL RICORDO DI VITTORIO MOSSERI

mossToaff, sia il suo ricordo di benedizione, un uomo che ha saputo caratterizzare la vita dell’intero ebraismo italiano.
Un uomo che ha reso e continua a rendere onore a Livorno, anche con questo suo ultimo atto di volontà che lo vuole sepolto al fianco della moglie, nella città in cui nacque e in cui germogliarono i primi semi di una carriera rabbinica destinata a lasciare il segno. La città dove aveva ottenuto, ultimo studente, la laurea rabbinica, presso la prestigiosa Scuola Rabbinica Livornese.
In queste ore di profonda commozione e cordoglio, in queste ore in cui vecchie e nuove testimonianze ci sfiorano, sentiamo tutta la città di Livorno vicina e partecipe al lutto. Il sindaco, le istituzioni, tanti comuni cittadini.
Pur non essendo stato rabbino a Livorno, rav Toaff ha sempre mantenuto saldo il proprio rapporto con le radici ed è stato per molti anni un punto di riferimento per tanti di noi.
Lo ricordo come uomo dalla spiccata sensibilità e umanità, oltre i prestigiosi incarichi che ha ricoperto in una vita che è stata lunga, intensa e proficua.
Un aneddoto tra gli altri mi ha sempre commosso. E cioè il fatto che – mi è stato raccontato – si facesse accompagnare a prendere il caffè sul litorale di Ostia. Per vedere il mare, quel mare che in qualche modo gli ricordava Livorno.
Grazie rav. Sei stato un esempio, una guida, la coscienza spirituale e morale dell’ebraismo italiano.
La tua lezione e il tuo sorriso non saranno dimenticati.

Vittorio Mosseri, presidente Comunità ebraica di Livorno

LE TESTIMONIANZE DELLA “PIAZZA”

toaff“Cosa ricordo di rav Toaff? Conservo di lui tantissime belle immagini. Non dimenticherò mai per esempio quando girava per la piazza e faceva le berachot, la benedizione, ai ragazzi che si trovavano lì”, racconta Elisabetta. “Abbiamo avuto tante lunghe conversazioni. Ricordo ancora per esempio quando parlammo nei corridoi del ruolo della donna nell’ebraismo e lui mi invitò nel suo ufficio perché voleva terminare il discorso”, incalza Emma. “Era una persona fantastica, e tra le altre cose abbiamo una sua foto bellissima al nostro matrimonio”, si commuove Angelo.
Molti gli uomini e le donne che emozionati rievocavano le passeggiate del rav Toaff nel ghetto, i suoi saluti calorosi e la sua Berachà che risuonava nel Tempio durante lo Shabbat. Spiega Liana: “Il rav, con il suo volto di uomo buono e la sua preghiera, è stato per me e per la mia famiglia il simbolo della continuità. Ha sposato i miei genitori, ha unito me e mio marito in matrimonio e quando mia figlia ha deciso di convolare a nozze, ancora un’altra volta abbiamo voluto che officiasse lui, il nostro rav. Nonostante fosse già molto anziano, non ha voluto mancare nemmeno questa volta”.

Karin piccola “Posso parlare solo per sentito dire, in quanto come tutti i ragazzi e le ragazze della mia generazione non ho avuto modo di conoscere il rav Toaff bene di persona, ma nemmeno di vivere gli anni di profondi cambiamenti in cui è stato rabbino capo di Roma” spiega Karin Guetta, studentessa universitaria ventitreenne di una famiglia romana di origine tripolina.
Karin ha voluto comunque essere presente insieme a tantissime altre persone per rendere omaggio al rabbino emerito, che anche i più giovani conoscono e ricordano con grande affetto.
“Quello che posso sicuramente dire ‐ afferma Karin ‐ è che so che rav Toaff è stato un rabbino che attraverso il suo atteggiamento sensibile e la sua apertura ha fatto in modo di avvicinare molte persone alla religione in un periodo storico difficile come quello vissuto dalla Comunità all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. So anche che per questo stesso aspetto nel corso del tempo è anche stato criticato da alcune persone, sostenitrici della necessità di un diverso approccio”.
“Per quanto come in ogni ambito sia legittimo portare avanti delle critiche, al di là di ogni considerazione di carattere religioso ‐ conclude Karin ‐ sono convinta del fatto che il rav Toaff sia stato un rabbino capo di questa Comunità perfetto per il periodo storico in cui ha vissuto”.

Del Monte piccola Vicino a Luciano e Giovanni, dei quali leggete in pagina i ricordi, siede davanti alla scuola ebraica, nel cuore del Portico d’Ottavia, Cesare Del Monte. Mentre ascolta in silenzio i suoi amici rievocare il rabbinato del rav Toaff, sorride quando c’è da sorridere e si oscura in volto quando il gruppo fa riferimento al corteo funebre che si svolge a pochi metri di distanza. Quando gli viene chiesto di raccontare un suo ricordo che lo lega in modo particolare al rabbino Toaff, Del Monte spiega: “Beh, ricordo sicuramente quando ha sposato me e mia moglie”.
Poi, mentre sembra aver terminato, aggiunge a bassa voce: “La verità è che rav Toaff mi ha salvato la vita”.
“Mi ha salvato – continua – perché tanti anni fa ogni volta che scendeva in piazza, nell’antico Ghetto, e vedeva me e i miei amici non mancava mai di dare a ognuno di noi la sua berachà, la sua benedizione. Quando anni fa mi sono trovato di fronte a momenti critici della mia esistenza e, grazie a D‐o, me la sono cavata, ho mandato un pensiero al Rav e a tutte le benedizioni che ci ha dato in questi anni. L’ho ringraziato in silenzio perché è proprio vero: la sua berachà allunga la vita”.

Laura Di Segni piccola Laura Di Segni sta in piedi fuori dalla porta del suo negozio all’ingrosso di biancheria sul Portico d’Ottavia, il cuore pulsante della zona. Guarda da quella posizione la folla, commossa e attonita, in fila.
C’è chi va di fretta in pausa dal lavoro perché ci tiene a esserci anche per pochi minuti, qualcun altro è spaesato perché non sa da che parte deve passare per via delle transenne che rendono le vie gremite più ordinate e più sicure, altri camminano invece più lenti prendendosi un momento di riflessione nell’allontanarsi dalla sinagoga e contemporaneamente anche dalla casa del rav che abitava proprio lì di fronte, la cui finestra è aperta dalla sera prima, quando la Comunità si è riunita in preghiera appena ricevuta la triste notizia. “Salutava sempre con calore e aveva la caratteristica di essere sempre gioioso”, racconta Laura.
“Ho un ricordo bellissimo di lui, provo nei suoi confronti un grande affetto – aggiunge – anche perché mi ha sposato”. Pochi metri più in là, un signore assiste a questa conversazione. Sorridendo guarda Laura e le chiede: “Ma gliel’hai detto che il rav Toaff ti ha sposata?”. Viene fuori che quel signore è suo marito Angelo Zarfati, che si avvicina per posare in una fotografia con la moglie. E conclude: “Era una persona meravigliosa, e tra le altre cose abbiamo una foto bellissima di lui proprio al nostro matrimonio”.

Liana Della Rocca piccola Avvicinandosi a un nutrito gruppo di persone in fila per dare l’ultimo saluto al rav Toaff, alla domanda di raccontare un proprio ricordo o un proprio episodio personale, alcuni preferiscono tacere.
Quando lo chiediamo a lei, Liana Della Rocca, romana da generazioni, fa un ampio sorriso e si illumina: “Ho tanti ricordi della mia infanzia che mi legano al rav e mi sentivo e mi sento ancora molto legata a lui. Il rav con il suo volto di uomo buono e la sua preghiera è stato per me e per la mia famiglia il simbolo della continuità”. “Perché? Beh perché ha sposato i miei genitori, ha unito me e mio marito in matrimonio e quando mia figlia ha deciso di convolare a nozze, ancora un’altra volta abbiamo voluto che officiasse lui, il nostro Rav. E nonostante fosse già molto anziano non ha voluto mancare nemmeno questa volta”.
Sono tante le voci che si riempiono nella piazza e che, come Liana, ricordano il rav Toaff come il protagonista indimenticabile del proprio matrimonio celebrato durante il cinquantennio del suo rabbinato romano: c’è chi ha una foto incorniciata e chi semplicemente, sorridendo accanto al coniuge conferma con orgoglio, che sì, a unirli in matrimonio è stato proprio lui.

Tina B piccola Nel corso dei cinquanta anni passati ricoprendo la carica di rabbino capo della Comunità ebraica di Roma (dal 1951 al 2001), rav Toaff ha dovuto affrontare cambiamenti epocali.
Dopo essersi trovato a dover ricostruire l’ebraismo romano dopo la Shoah, una delle sfide più grandi è arrivata nel ’67, quando nuclei di ebrei libici sono giunti nella capitale dopo essere fuggiti mentre infuriava la rivoluzione che portò Muammar Gheddafi al potere. Centinaia di famiglie, la cui gran parte aveva perso i propri beni, che dovevano introdursi e ambientarsi una comunità completamente diversa da quella di origine. A dare la propria preziosa testimonianza è Tina Baranes che, dopo essere arrivata da Tripoli a Roma a poco più venti anni, divenne una delle storiche professoresse di ebraico e cultura ebraica della scuola: “Ho tanti ricordi del rav Toaff da non riuscire a riassumerli tutti. Uno in particolare: quando iniziai a lavorare nella scuola ebraica, ero comprensibilmente un poco disorientata e in quel periodo il rav mi diede tanti consigli. Nonostante i suoi impegni lo occupassero moltissimo, fu un solido punto di riferimento e fondamentale aiuto mentre mi inserivo in questo ambiente per me nuovo. Ha incoraggiato la mia carriera di insegnante ed è stato davvero umano. Credo fermamente che lo ricorderò sempre per la benevolenza e l’affetto con cui ha accolto tutti noi”.

Boccione piccola “Devo tornare di corsa a lavorare in negozio ma non potevo non passare per portare il mio saluto al rav”. Elisabetta Calò racconta perché ha deciso di partecipare ed essere presente.
Il negozio nel quale deve tornare velocemente è Boccione, l’antico forno del Portico d’Ottavia che gestisce con la sua famiglia e dove accorrono moltitudini di appassionati ogni settimana per assaggiare la tipica pizza con l’uvetta e la frutta secca o la crostata di ricotte e visciole.
“Cosa mi ricordo di rav Toaff? Conservo di lui tantissime belle immagini. Non dimenticherò mai per esempio quando girava per la piazza e faceva le berachot, la benedizione, ai ragazzi che si trovavano lì. In quella occasione non mancava mai di entrare dentro il negozio e farla anche alla nostra famiglia. L’ultima volta che l’ho visto era affacciato dalla finestra di casa sua, vicino al Tempio Maggiore, e sorrideva. Era davvero una gran bella persona e il suo carisma resterà per sempre nel mio cuore”.

Emma Alatri piccola “Conoscevo molto bene il rav Toaff, l’ho incontrato la prima volta nel 1946, a un campeggio a Petrace, in Val Badia, organizzato dai giovani ebrei italiani, che si sono riuniti immediatamente dopo che Roma è stata liberata per cominciare a organizzare attività” racconta Emma Alatri, ex insegnante e poi direttrice della scuola elementare della Comunità ebraica di Roma. All’epoca Toaff era rabbino capo della Comunità di Venezia, e a quel campeggio, a cui era andato accompagnato dalla moglie e dai due figli, “faceva tutto, il rabbino, il moreh, macellava la carne e tantissime altre cose”.
Poi nel 1951 il rav si è spostato a Roma, e nel maggio del 1952 ha sposato Emma con suo marito Gino Fiorentino. “All’epoca si faceva tutto con grande semplicità, ci siamo sposati a casa, lui è venuto e da allora non è mai mancato a nessun evento della mia vita familiare”. Ma il rapporto di Emma Alatri Fiorentino con il rav Toaff è diventato anche lavorativo quando lui l’ha chiamata nel 1988, dopo tanti anni di insegnamento, a dirigere la scuola ebraica. “È stato una della persone che ha sempre sostenuto le istituzioni scolastiche, ci teneva molto ai bambini”, sottolinea la nostra interlocutrice. “Abbiamo avuto tante lunghe conversazioni, ricordo ancora per esempio quando parlammo nei corridoi del ruolo della donna nell’ebraismo e lui mi invitò nel suo ufficio perché voleva terminare il discorso. Alla fine aveva ragione lui”, sospira. Tra i numerosi aggettivi che usa per descriverlo, la morah lo definisce “un uomo democratico, una persona straordinaria a tutti i possibili livelli”.

Trio piccola Nella lunghissima e ordinata fila anche il trio composto da Alberto Veneziani, la signora Sara Calò e la signora Fiorella Di Segni. Racconta Veneziani: “Il rabbino capo emerito era una persona straordinaria, quello che si definisce ‘un rabbino di tutti’. Aspettavamo insieme di vederlo compiere cento anni e la sua scomparsa a pochi giorni dalla data ci ha lasciato sgomenti”.
“Pur essendo di una modestia e semplicità esemplare – continua – aveva una cultura eccezionale”. Come noto, rav Toaff si trovò a gestire la Comunità ebraica nel delicatissimo periodo del dopoguerra, facendo da punto di riferimento alle famiglie dei reduci sopravvissuti alla persecuzione nazista. A testimoniarlo è Sara Calò, figlia della Shoah: “Mio padre Angelo Calò tornò dall’inferno di Auschwitz, ma purtroppo gli storici non hanno fatto in tempo a scoprire la sua testimonianza perché morì a soli 48 anni e in un periodo nel quale ancora nessuno aveva la forza di raccontare. Quando mi ritrovai di fronte a una delle sfide della vita, rav Toaff mi fu davvero di sostegno e mi fece leggere i salmi tutti i giorni. Per quanto fummo educati dalla nostra famiglia in maniera laica ci fece riscoprire il valore dell’ebraismo”. “Pensando ad Angelo Calò, ho solo un unico grande rimpianto – conclude Veneziani – lui aveva un diario sul quale appuntava tutti i suoi pensieri, un giorno lo prestò a un suo amico che non glielo ha più restituito: sono certo che ritrovarlo sarebbe una grande occasione per riscoprire una storia”.

Luciano piccola Davanti alla scuola ebraica, un poco distaccati dal corteo, si riuniscono loro: un gruppo di uomini anziani ma dalla tempra forte che hanno gli occhi di chi ha visto fin troppe cose. Non se la prendono se vengono definiti ‘abitanti di piazza’, anzi ne sono fieri. Si muovono tra le strade con la sicurezza di chi in quelle vie ha giocato per anni a calcio, ha manifestato durante i momenti duri per gli ebrei romani e si è riunito ogni pomeriggio con gli amici di una vita. Giovanni Calò e Luciano Coen, dopo un po’ di ritrosia decidono di condividere il proprio ricordo di rav Toaff. Quando Coen decide di parlare si fa subito serio e, con gli occhi lucidi mentre gli altri ascoltano in rispettoso silenzio, racconta: “Quando rav Toaff passava per la piazza aveva una luce intorno a sé, trasmetteva un calore che portava tutti noi a volergli stare vicino. Era una persona che sapeva emozionare”. Le persone vicine annuiscono, mentre Giovanni Calò aggiunge: “Quello che trasmetteva, anche solo con la sua presenza, ha segnato la Comunità di Roma per tutta la vita”.
“Io ‐ conclude Coen ‐ non ho alcun interesse a finire sui giornali o a rilasciare delle dichiarazioni. Ma è importante che le persone sappiano cosa il rav Toaff ha rappresentato per tutti noi”.

Gabriele Fiorentino piccola Gabriele Fiorentino, un giovane ebreo romano dottorando in ingegneria civile e consigliere Ugei, ha voluto essere presente sia al momento di preghiera che si è svolto al Tempio Maggiore poche ore dopo aver appreso della scomparsa del rabbino capo, sia la mattina dopo prima che il rav tornasse a riposare a Livorno. Di lui Gabriele condivide un ricordo della sua infanzia: “Ero un bambino, avevo circa dieci anni e frequentavo la scuola elementare della Comunità, quando nel 1995 ci fu il compleanno degli ottant’anni del rav. Per i festeggiamenti previsti insieme agli alunni della scuola, ci chiesero di scrivere un piccolo componimento in versi su di lui o su qualcosa a cui lui ci aveva fatto pensare. Tuttavia io devo ammettere di essermene dimenticato, e me ne ricordai solamente la mattina stessa in cui avrei dovuto consegnarlo. Corsi da mio papà, si dà il caso che sia un abilissimo verseggiatore, e molto velocemente riuscì a darmi una mano per trovare qualche rima che suonasse bene e a comporre una piccola filastrocca per il rav Toaff. Alla fine però, quei versi pur essendo frettolosi riscossero un grande successo, in quanto furono selezionati dalle morot per essere tra quelli effettivamente letti di fronte al rav e a tutta la scuola. Ero un bambino piuttosto timido e rammento ancora la sensazione di dovermi alzare in piedi di fronte a tutte quella classi e al Rav, ma sono contento di avere un ricordo che mi faccia spuntare un sorriso”.

Interviste dalla “piazza” cura di Rachel Silvera e Francesca Matalon

(Il disegno in alto è di Giorgio Albertini)

(19 maggio 2015)