In guerra servono le armi
Per la pace le idee

sacksNel 2003 ero con il professor Bernard Lewis, grande studioso dell’Islam, quando gli venne chiesta una previsione su cosa sarebbe successo in Iraq. La sua risposta fu memorabile: “Sono uno storico, per cui posso fare previsioni solo sul passato. Per di più sono uno storico in pensione, per cui perfino il mio passato è superato”.
Memore di quella risposta faccio solo la previsione più semplice possibile, ossia che la battaglia contro Al Qaeda, Al Shabaab, Boko Haram, ISIS e le loro altre infinite varianti sarà il conflitto che definisce la prossima generazione. E per ovvie ragioni. Primo, come hanno spiegato Ori Brafman e Rod Beckstrom nel loro libro The Starfish and the Spider c’è una differenza tra una stella marina e un ragno: un ragno, se decapitato, muore, mentre una stella marina può rigenerarsi interamente a partire da anche uno solo dei suoi raggi. L’Islam radicale è come una stella marina, non come un ragno, e anche se Al Qaeda e ISIS venissero sconfitti, tornerebbero in altra forma, e con altri nomi. In secondo luogo nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi quattordici anni dall’Occidente, l’Islam radicale è oggi molto più forte di quanto non fosse allora. Come ha scritto Moses Naim in “The End of Power”, le guerre asimmetriche consegnano sempre più spesso la vittoria nelle mani del fronte militarmente più debole. I termini di conflitto stanno cambiando e noi non abbiamo ancora trovato una risposta a questa forma dirompente di innovazione.
Terzo, ci troviamo di fronte un fenomeno ignoto all’Occidente sin dalle guerre di religione del XVI e del XVII secolo, che quando terminavano in un luogo ricominciavano in un altro, finendo per durare più di un secolo. Gli stessi fattori di allora sono ancora presenti: il malcontento per il potere, diffusamente percepito come corrotto (la Chiesa cattolica allora, i regimi nazionalisti laici oggi); la protesta che prende forma religiosa, in un tentativo di tornare alla primitiva purezza della fede come era in principio; e la rivoluzione delle tecnologie dell’informazione, che ha permesso a coloro che altrimenti sarebbero stati gruppi marginali di insoddisfatti di aggirare tutte le strutture di potere esistenti. Poi la rivoluzione della stampa, con YouTube, facebook e gli altri social media, di cui ISIS è fra gli utenti più esperti.
Se questa previsione ha anche solo la più remota possibilità di avverarsi, allora sosterrei tre semplici punti.
In primis non è chiaro se abbiamo già seguito la legge fondamentale di Robert McNamara: capire la psicologia del tuo nemico. Come spiega Graeme Wood in un suo articolo pubblicato da The Atlantic a marzo, ISIS è un fenomeno religioso in tutto e per tutto, come tutti i movimenti dell’Islam radicale. Non siamo molto bravi, in Occidente, a comprendere la teologia, ma senza di essa non possiamo capire i nostri avversari.
In secondo luogo, le guerre si vincono con le armi, ma alla pace si arriva con le idee, e questo è ciò che è successo nel XVII secolo. Pensatori come John Milton, Thomas Hobbes, John Locke e Benedetto Spinoza si sono seduti e hanno studiato la Bibbia e ne hanno ricavato le cinque idee che hanno plasmato il mondo moderno: contratto sociale, limiti morali del potere, libertà di coscienza, dottrina della tolleranza e, più importante di tutti, i diritti umani. Sono concetti nati come idee religiose, come disse John F. Kennedy al suo insediamento: “Le stesse idee rivoluzionarie per cui hanno combattuto i nostri avi sono ancora in circolazione in tutto il mondo: la convinzione che i diritti dell’uomo non vengono dalla generosità dello Stato , ma dalla mano di Dio”.
La Guerra Fredda è stata percepita in Occidente anche come una battaglia di idee, e grandi pensatori come Isaiah Berlin, Karl Popper e Friedrich Hayek hanno sviluppato allora nuove e stimolanti idee in difesa della libertà. Finora il XXI secolo ha prodotto poche nuove idee, se ne ha prodotte, e dal momento che si tratta di un conflitto religioso devono essere idee religiose, esattamente come lo sono state nel XVII secolo. È per questo che ho scritto Not In God’s Name, per almeno iniziare uno scambio di idee.
Infine, se la religione è parte del problema, allora deve essere anche parte della soluzione. E abbiamo un grande vantaggio iniziale. La maggior parte delle grandi religioni del mondo oggi stanno dalla stessa parte. Gli ebrei sono minacciati dal ritorno di antisemitismo. I cristiani vengono massacrati o esiliati o che vivono nel terrore nella quasi totalità del Medio Oriente. I musulmani moderati vengono massacrati dai musulmani radicali. Indù e sikh si sentono ugualmente minacciati, non solo in India, ma anche in Europa. I bahai sono perseguitati in Iran, gli yazidi in Iraq e i drusi in Siria. Se restiamo uniti vinciamo.
I leader religiosi devono essere reclutati e portati a unirsi come un elemento riconosciuto della risposta globale a tirannia e terrore, preferibilmente sotto l’egida delle Nazioni Unite. Che sia fatto sotto forma di diplomazia internazionale Track-2 in specifiche zone di conflitto, o sotto l’egida dell’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, o semplicemente come un organismo dedicato a stabilire i parametri di educazione religiosa in modo da poter insegnare ai bambini di tutto il mondo a non odiare coloro con i quali dovranno uno giorno imparare a convivere.
È una battaglia che possiamo e dobbiamo vincere per ragioni politiche, morali, religiose e umanitarie. Viviamo, oggi, in un mondo in cui le persone uccidono in nome del Dio della vita, fanno la guerra in nome del Dio della pace, e sono crudeli in nome del Dio della compassione. Arriva un momento in cui noi, quale che sia la nostra fede, dobbiamo alzarci e dire: non in nome di Dio, e prima lo facciamo insieme, meglio è.

Rav Jonathan Sacks

Questo discorso è stato pronunciato da rav Sacks alla “UK-Israel Shared Strategic Challenges Conference” che si è tenuta a Londra il 22 giugno scorso. La traduzione è di Ada Treves

(29 giugno 2015)