Un film demolisce a forza di risate
il luogo comune dell’antisemitismo

cavigliaBattesimo del fuoco, e molti applausi sinceri, sul red carpet della settantaduesima Mostra del cinema di Venezia, per le “Pecore in erba” di Alberto Caviglia.
Quello che pochi mesi fa poteva apparire un sogno nel cassetto, il castello in aria di un giovane ebreo romano che vorrebbe fare il regista, si sta rivelando un fatto nuovo, e importante, nel mondo del cinema italiano. Ma non solo. Si tratta anche di un passo significativo, il cui intento muove dall’interno del mondo degli ebrei italiani e riesce a entrare nell’immaginario collettivo.
Il fatto che la presentazione ufficiale sia avvenuta proprio il 6 settembre, quando alla cittadinanza si aprivano le porte delle sinagoghe e degli altri luoghi di incontro per celebrare la Giornata Europea della Cultura Ebraica, ha così aggiunto un senso ulteriore a un film che ha visibilmente l’ambizione di ripensare la lotta all’antisemitismo e al pregiudizio.
Della sceneggiatura, che attraverso le vicende di un giovanotto ossessionato dall’intero catalogo delle demenziali fissazioni antisemite e più in generale dal bisogno di immaginare un nemico nel disperato tentativo di definire la propria fragilissima identità, il lettore di questo notiziario è già bene informato grazie alle anticipazioni apparse negli scorsi giorni. Della irresistibile comicità che il film diretto da Caviglia è capace di sprigionare e soprattutto delle impressioni e delle reazioni del pubblico si comincia invece a parlare giusto adesso e ancora molto, probabilmente, si parlerà nelle prossime settimane, quando subito dopo Kippur, il 24 settembre, la pellicola entrerà nel circuito di distribuzione nazionale.
Quello che oggi si è preso a chiamare un mockumentary, un film comico che riferisce vicende immaginarie costruito con la tecnica di un documentario, sulle prime colpisce per il richiamo popolare, il coinvolgimento di un nutrito plotone di celebrità che recitando il proprio ruolo imperano sull’Italia di oggi. La produzione, accanto ad attori professionisti di valore, ha chiamato in passerella – e loro si sono generosamente prestati, spesso rivelando grande ironia – vip come Corrado Augias, Tinto Brass, Claudio Cerasa, Ferruccio De Bortoli, Giancarlo De Cataldo, Elio, Fabio Fazio, Carlo Freccero, Linus, Giancarlo Magalli, Enrico Mentana, Vittorio Sgarbi, Kasia Smutniak, Mara Venier.
Poi emerge con forza il brio, la comicità irresistibile che deriva dal dispiegarsi minuzioso e impietoso di tutti i luoghi comuni dell’antisemitismo e del pregiudizio. Infine, a ben guardare, la mano sicura di un giovane regista che è alla sua prima prova, ma ha avuto occasione di farsi le ossa come aiuto a fianco di Ferzan Özpetek. Un regista che si annuncia sulla scena del cinema italiano come qualcuno che è venuto per lasciare il segno.
locandinaMa quello che più conta, non è tanto la prova tecnica superata agevolmente, lo spettacolo riuscito.
Caviglia dimostra infatti la capacità di rovesciare per una volta la frittata, di provocare, di denunciare con un sorriso tutte le idee preconfezionate e tutti gli stereotipi che inquinano la nostra vita quotidiana. E nel mirino finiscono non solo le aberrazioni demenziali degli antisemiti nostrani, di destra e di sinistra, cattolici o intellettualistici che siano. Ma anche la sostanziale propensione suicida a subire di una società, sotto la copertura del buonismo che non si nega a nessuno e la martellante ossessione della propaganda della demenza digitale. Una marmellata insopportabile, da cui persino gli ebrei, come appaiono nel film e talvolta nella vita, proprio loro che dovrebbero essere le prime vittime di questo stato delle cose, hanno difficoltà a tenersi al riparo.
Le scene esilaranti in cui alcuni esponenti ebraici non riescono a uscire dalle frasi di circostanza, dai riti del buonismo obbligato, dalla rozza retorica che si ripete stancamente, e non trovano infine né l’ambizione né la forza di dire qualcosa di nuovo, dimostrano che in questo film, annunciato ironicamente dall’avvertenza al lettore di una produzione “plutogiudaicomassonica”, non si fanno in realtà sconti a nessuno.
“Pecore in erba” ci restituisce così qualcosa di vero, perché era nostro e l’avevamo perduto. La capacità di ridere apertamente della quotidianità che ci tocca sopportare. Una emozione liberatoria e amara al tempo stesso, perché ci mostra che la capacità di denunciare le storture attraverso il senso dell’umorismo dovrebbe costituire certo una componente essenziale del patrimonio ebraico, ma ai tempi nostri e dalle nostre parti resta ancora un orizzonte remoto da riconquistare.

gv

(7 settembre 2015)