Periscopio – Immagini

lucreziLa recente pubblicazione di alcune crude immagini fotografiche relative alla tragedia dei profughi (in particolare, quella raffigurante il piccolo Aylan steso senza vita sulla spiaggia), e la loro esponenziale moltiplicazione sui mezzi di comunicazione, a livello mondiale, ha acceso in diversi Paesi, un utile e, a mio avviso, salutare dibattito su quale debba essere, nell’informazione, il ruolo affidato alle immagini e se sia giusto e opportuno pensare a qualche forma di limite o di regolamentazione nel loro uso. Come è stato detto, se nessuno può pensare, in società liberali, a forme di censura o di divieto, che possano impedire la libera scelta degli operatori riguardo alle immagini da mostrare, nell’odierna era informatica, dominata da un’invasiva e capillare presenza dei media e da un costante effetto di emulazione (per cui la stessa immagine ‘forte’ viene automaticamente ripresa da tutti), si può porre il problema opposto, ossia la libera scelta dell’utente di ‘non’ vedere una certa rappresentazione, ritenuta disturbante o comunque sgradevole, scelta che può legittimamente ritenersi, di fatto, impedita dall’assedio degli agguerriti mass-media.
Il problema è complesso, e imporrebbe delle considerazioni più ampie del breve spazio di questa nota. In generale, considero un fenomeno negativo l’enorme enfatizzazione data, nei tempi odierni, alla presunta funzione ‘scioccante’ delle immagini (usate per emozionare, addolorare, spaventare ecc.), a tutto discapito dell’elaborazione delle idee e del pensiero, cosa molto meno di moda, e di cui ci sarebbe certamente, invece, molto più bisogno. Non credo affatto che l’emozione di una foto drammatica possa svolgere alcun effetto ‘educativo’ sul pubblico, se non altro perché, come tutti sanno, la prima regola della comunicazione è quella dell’assuefazione. Come le donnine di Parigi facevano la calza sotto la ghigliottina, così nelle nostre famiglie le decapitazioni dell’ISIS e i morti in mare sono diventati nient’altro che uno spot prima della telenovela serale. Sarebbe molto meglio cercare di fare ragionare la gente, fare appello alla ragione, anziché alla pancia. Anche perché gli umori della cosiddetta ‘gente’, di questi tempi, non mi sembrano tanto attraversati da sentimenti di umanità e solidarietà.
All’interno di questa questione generale si è anche parlato della legittimità e opportunità delle campagne promozionali delle agenzie di soccorso al Terzo Mondo, laddove esse cercano di sensibilizzare il pubblico mostrando desolanti filmati di bambini africani piangenti e denutriti, di cui si annuncia l’inevitabile prossima morte, se lo spettatore non darà il suo piccolo contributo di sostegno.
In questo caso, il mio giudizio è netto, ed è decisamente negativo. Se l’immagine del povero Aylan, rappresenta, infatti, certamente, una notizia, che, in qualche modo deve essere data, quelle degli sfortunati bimbi africani non sono delle notizie, ma semplicemente degli strumenti di una campagna promozionale, sia pure di un business particolare, dagli encomiabili scopi etici.
E mi chiedo chi abbia il diritto di usare l’immagine di un essere umano, in condizioni di estrema difficoltà, a scopi promozionali, senza chiedere il consenso all’interessato (oppure, se tale domanda pare ridicola, senza chiedersi, mettendosi al posto dell’interessato, se l’uso di tale immagine non possa apparire lesivo della sua dignità di essere umano). Qualcuno farebbe lo stesso con un bambino italiano? (sarebbe espressamente proibito, tra l’altro, dalla cd. Carta di Treviso, che evidentemente non vale per gli extracomunitari). Qualcuno di noi accetterebbe che il pianto del proprio figlio sia esibito davanti a milioni di persone, per raccogliere fondi? Una risposta che è stata data a tale domanda è che il fine giustifica i mezzi. Ma anche su queste piano ho molte perplessità. Quelle campagne, infatti, cercano di sollevare nello spettatore un senso di colpa, facendolo vergognare della sua pancia piena di fronte alla fame del Terzo Mondo. Ma io credo che la gente tutto voglia tranne che sentirsi in colpa, indipendentemente dal fatto se abbia o non abbia fatto qualcosa di male. E il primo istinto, davanti alle terribili immagini (dico ‘terribili’ perché lo sono oggettivamente, ma non sono più percepite come tali dopo 3, 4, 100 proiezioni), può essere un moto di fastidio e di ripulsa, se non, peggio ancora, uno sbadiglio.
Non sono un esperto di marketing, ma proporrei una forma di pubblicità completamente diversa, con uno speaker che spieghi, in poche parole, e senza nessuna immagine, che la fame nel mondo è un problema drammatico, che miete ogni giorno vittime innocenti e minaccia anche l’opulento Occidente, per cui un piccolo contributo, oltre a essere un nobile gesto solidale, sarebbe nello stesso interesse del donatore.
Perché non provare?

Francesco Lucrezi, storico

(9 settembre 2015)