Venezia – “Noi e i valori non negoziabili”

2016-01-24 11.14.49“Massima apertura verso chiunque arrivi, abbia bisogno, e genuinamente, pur volendo mantenere una propria specificità culturale, chieda di essere parte della società, ma altrettanta assoluta fermezza nel riconoscere che vi sono valori, primo di tutti quello della vita di ogni individuo, che sono per noi cittadini italiani di qualsiasi provenienza, incondizionatamente accettati e indiscutibili.
Non è quindi possibile scendere a compromessi con chi non accetta questo principio né con chi distingue tra vita e vita e giunge, per questa via, a giustificare atti di inaudita violenza contro soggetti inermi, vittime di atti di terrorismo cui costretti ad assistere nel mondo. Come cittadini siamo tutti avvertiti e responsabili del nostro futuro che dipende da noi”.
Lo ha affermato il presidente della Comunità ebraica di Venezia Paolo Gnignati, intervenendo oggi in occasione della cerimonia cittadina del Giorno della Memoria al Teatro Goldoni. Di seguito il suo discorso integrale.

Nei due precedenti anni, in occasione del Giorno della Memoria, ho avuto modo di soffermarmi su due figure centrali dell’ebraismo veneziano.
Da un lato il professor Giuseppe Jona, medico illustre, presidente della Comunità, suicida nel settembre 1943, pochi giorni dopo che i tedeschi avevano preso il potere in città ed il presagio di quelle che sarebbero state le future deportazioni acquisiva concretezza. Il suo gesto farà capire a molti la gravità dell’incombente pericolo e permetterà quindi ad alcuni di mettersi in salvo.
Dall’altro la figura del professor Gino Luzzatto, illustre studioso, intellettuale antifascista di riferimento in città, escluso dall’insegnamento in un momento in cui i rettori delle Università di Padova e Venezia facevano a gara a chi mostrava più zelo nella puntuale applicazione delle legge razziali e che, per fortuna, sarebbe riuscito ad entrare in clandestinità, a salvarsi, e quindi a ritornare per riacquisire la cattedra che gli era stata sottratta e divenire il prestigioso rettore di Ca Foscari del dopoguerra, protagonista della rinascita civile della Università e della città.
Due storie con esiti opposti, proprie di persone le quali condividevano l’appartenenza a quella borghesia intellettuale, che, pienamente integrata nella società in cui aveva conseguito posizioni di assoluto rilievo, sentiva particolarmente acuto il tradimento che il fascismo, con le leggi razziali, compiva nei confronti della eredità risorgimentale e dei cittadini ebrei, i quali venivano, prima, emarginati e, poi, perseguitati.
La memoria per essere autentica e completa, non può, tuttavia, fermarsi al ricordo di pur assai illustri personaggi come questi od a quella, pure importante del rabbino capo Adolfo Ottolenghi, deportato ed ucciso nei campi, ma deve cercare di allargarsi ed abbracciare potenzialmente tutte le vittime della persecuzione; ciò, da un lato, per mantenerne individualmente il ricordo e, dall’altro, per meglio cogliere appieno la terribile natura del fenomeno persecutorio.
Ecco allora che è importante ricordare che 246 sono gli ebrei Veneziani i quali furono deportati ed assassinati per mano fascista e nazista, mentre tutti, indistintamente, i componenti della Comunità ebraica furono esposti al rischio della vita.
È detto nella Tradizione ebraica che “chi salva una vita salva un modo intero”, il che significa, d’altra parte, che quando una vita va perduta è un universo che si spegne. Conclusione questa rafforzata se si considera che, sempre secondo la Legge ebraica, quello del non uccidere è uno dei tre precetti che non si possono mai trasgredire, anche in presenza di pericolo di vita.
In una prospettiva ebraica, dunque, c’è un mondo che si spegne per ogni vita, anche la più semplice, che viene perduta.
Nell’ovvia impossibilità di ricordare qui questi 246 mondi vorrei muovere la mia breve riflessione dal nome di due persone la cui deportazione e morte è ricordata con queste parole in una lapide posta dal Circolo ebraico Cuore e Concordia all’ingresso della sinagoga spagnola: Ugo Beniamo Levi e Moise Calimani, vittime inermi di barbarico odio a perenne ricordo di questi modesti ma solerti impiegati della Comunità.
Si tratta di un’immagine nitida: persone semplici ed operose, fuori dalla mischia della lotta politica come del più rarefatto ambiente in cui vivevano personaggi come Jona e Luzzatto, la cui affermazione poteva dare fastidio a molti; eppure anch’essi vennero travolti, senza un motivo, se non quello di essere nati ebrei.
Questa è l’elemento comune alle persone le cui vite, anche a Venezia, a partire dalla retata del 5 dicembre 1943 (poche ore dopo che alla Fenice aveva suonato Benedetti Michelangeli, ci avverte lo storico Levis Sullam), vennero prima sconvolte e poi recise. Si tratta di vite che, nella prospettiva della ideologia totalitaria, dovevano essere spazzate via e dimenticate in vista della realizzazione di quello che si pretendeva essere l’ineluttabile corso della storia.
Singolare e meritevolissimo contrappasso di questa prospettiva è l’iniziativa delle pietre di inciampo che, intelligentemente sostenuta dal Comune, pone presso l’ultima residenza di ciascun deportato una pietra che rievoca il nome che la furia omicida voleva cancellare nonchè il luogo ed il giorno in cui la singola persona è stata presa a forza per andare a morire in Germania, spesso nel giro di poche settimane.
La pietra di inciampo ha il merito di ricordare il nome della singola vittima e così di perpetuarne la memoria individuale; è un antimonumento, perché testimonia – in modo essenziale – la persona ed i fatti e ci costringe a porci domande su come tutto ciò sia accaduto.
Questo è quello che dobbiamo fare oggi per dare, se mai fosse possibile, un senso alla perdita irreparabile che non solo la Comunità ebraica ma anche la comunità civile, è per questo che siamo qui, ha subito.
Al riguardo, giustamente, la legge istitutiva del Giorno della Memoria ci chiama a ricordare anche chi, a rischio della vita, si è opposto ed ha aiutato.
Per fortuna non sono stati pochi se si considera che ogni ebreo che si è salvato quasi sempre lo deve, almeno in parte, ad un atto di generosità di un Italiano che, mettendo a rischio la vita propria e dei propri cari, ha sentito come suo dovere quello di aiutare: qualcuno che ha sentito la forza dell’insegnamento cui accennavo prima e nel momento della scelta, della responsabilità, ha percepito che, effettivamente, chi salva una vita salva un mondo intero e contribuisce a mantenere il mondo, nel suo complesso, migliore.
Al di là del bene ricevuto da chi è stato beneficiario di queste azioni e della gratitudine che come ebrei serbiamo, noi qui siamo a ricordare, come cittadini, queste azioni che hanno il grande merito di aver evitato di consegnare agli studiosi un periodo della storia Italiana che, altrimenti, dovrebbe classificarsi completamente buio e privo di spiragli di ragione.
Penso che al riguardo dobbiamo anche compiere, ma siamo maturi per farlo perché il tempo e gli avvenimenti difficili che stiamo vivendo ce lo impongono, un passo avanti e dirci chiaramente che l’insegnamento che traiamo dal comportamento di questi eroi civili noi lo tradiremmo nel peggiore dei modi se non ne cogliessimo le implicazioni attuali e quindi non riaffermassimo come definitivamente acquisti valori così potentemente affermati dalle loro azioni.
I corollari sono semplici: massima apertura verso chiunque arrivi, abbia bisogno, e genuinamente, pur volendo mantenere una propria specificità culturale, chieda di essere parte della società, ma altrettanta assoluta fermezza nel riconoscere che vi sono valori, primo di tutti quello della vita di ogni individuo, che sono per noi cittadini italiani di qualsiasi provenienza, incondizionatamente accettati ed indiscutibili.
Non è quindi possibile scendere a compromessi con chi non accetta questo principio né con chi distingue tra vita e vita e giunge, per questa via, a giustificare atti di inaudita violenza contro soggetti inermi, vittime di atti di terrorismo cui costretti ad assistere nel mondo.
Come cittadini siamo tutti avvertiti e responsabili del nostro futuro che dipende da noi.

Paolo Gnignati, presidente Comunità ebraica di Venezia

(24 gennaio 2016)