Mostriciattoli ad Auschwitz

torino vercelliDicono che il gioco valga circa sei milioni di dollari in utili ogni giorno. Sono i Pokémon della nuova generazione, quelli che si individuano con un’apposita applicazione, ovviamente da scaricare sul proprio supporto elettronico portatile, grazie al quale dare la “caccia” (così dai più viene presentata l’attività) al mostriciattolo di turno. Il sistema è a rete, come si conviene a tutte le attività che traggano la loro fonte di ispirazione, creazione, realizzazione e implementazione nella dimensione virtuale. Il circuito produttivo è un catenaccio tra alcune grandi imprese specializzate in due grandi comparti del web, il segmento ludico (Nintendo) e quello dell’elaborazione e della distribuzione dei dati (Google e Niantic). A ciò, si è poi aggiunta la corporation del consumo alimentare veloce per eccellenza, la MacDonald’s. Una sorta di rete commerciale pressoché perfetta. Almeno una trentina di milioni di “utenti” (sarebbe però meglio chiamarli per ciò che sono in prospettiva, ovvero clienti, pagando i servizi accessori, anche se in origine è gratuito, presentandosi come “free-to-play”) si è già iscritta al “gioco”, scaricando l’applicazione. Il primo Pokémon non era ambientato nel mondo reale bensì nella terra immaginaria di Kanto. La struttura del gioco coniugava il collezionismo (raccogliere tutti i poketmonsters, più di centocinquanta, in un album virtuale, il Pokédex) insieme al dare corso ad un “gioco di ruolo” attraverso i CCG, acronimo di “collectable card games”, ossia carte raffiguranti oggetti, creature, situazioni, qualità e potenzialità di un universo immaginario, utilizzate nelle diverse fasi del percorso ludico. Il tutto si legava poi all’idea di una sorta di caccia al tesoro su un territorio virtuale, permutato dai videogiochi. L’elemento di cerniera era (e rimane) quello dell’accrescimento: più un giocatore si garantiva certi personaggi, in una posizione di competizione e rivalità con altri soggetti, più aumentava (ossia evolveva, sviluppandosi su una scala di valori e competenze) la sua fisionomia. Il Pokemon Go aggiunge ora a tutto ciò l’ambientazione nel mondo reale, utilizzando la struttura del videogioco Ingress, basato sulla cosiddetta “realtà aumentata”, ossia “augmented-reality massively multiplayer online location-based game”: un gioco on-line aperto a un numero indefinito di utenti e basato sul collegamento fra luoghi reali del mondo fisico e luoghi virtuali propri, invece, dell’universo immaginario contenuto nel gioco. In un meccanismo di continuo riversamento tra fisicità e concretezza degli ambienti e fantasia della narrazione contenuta nelle dinamiche ludiche. La stessa nozione di “realtà aumentata” rinvia ad una specifica e sempre più diffusa condizione, quella che implica l’arricchimento della percezione sensoriale umana mediante un flusso persistente e cumulativo di informazioni elaborate e distribuite elettronicamente. Senza la mediazione di un supporto informatico queste informazioni non sarebbero percepibili con i cinque sensi. Nei fatti Ingress (creato originariamente da Niantic, affiliata a Google fino ad un paio di anni fa) è un sistema molto più complesso e articolato dell’originario Pokémon. Si affida anch’esso, tuttavia, alla contrapposizione tra fazioni (Illuminati e Resistenti). I partecipanti al gioco scelgono uno dei due gruppi e poi si danno un’incruenta battaglia cercando di arrivare al controllo dei “portali”, luoghi di concentrazione delle particelle di sapere, conosciute come Exotic Matter. I portali corrispondono nel mondo reale a luoghi di particolare rilievo storico, culturale o sociale: ad esempio edifici pubblici, monumenti, biblioteche. Spostandosi materialmente negli spazi pubblici, usando lo smartphone e Google Maps, attraverso il sistema GPS, il giocatore può garantire a sé e alla sua fazione una serie di oggetti utili allo svolgimento del gioco. Pokémon Go assume il meccanismo del “location based game” e quindi della contaminazione tra mondo virtuale e realtà. La caccia ai Pokémon si svolge su un terreno fisico, materiale, quindi da esplorare, camminare, attraversare ma, nei suoi esiti, è tutta intestina ad una dimensione immaginaria, dove la concretizzazione corporea di quest’ultima è data solo dalle raffigurazioni di animaletti inverosimili, sgraziati, buffi e incongrui, comunque privi di qualsiasi piacevolezza che non sia la deformazione dei tratti di un’infanzia fatta da piccoli incubi piuttosto che da gradevoli sogni. Al giocatore sono tuttavia richieste doti generalmente molto apprezzate nella vita associata e di relazione, nel lavoro, nello studio, tra i propri simili: pervicacia, costanza, concentrazione, determinazione, immedesimazione, coinvolgimento, competizione e comunicazione. Ciò che gli viene offerto come contropartita è l’immersione totale in una sorta di universo parallelo (ma che usa i luoghi fisici) con regole ferree, criteri ripetitivi (e come tali rassicuranti) e la simulazione di una netta contrapposizione, con avversari virtuali, in una rincorsa ad acquisire dei punti che “accrescono” il valore del giocatore. I luoghi virtuali dove identificare e trovare i piccoli mostri, i cosiddetti PokéStop, come si diceva, non a caso si trovano ubicati in aree di interesse pubblico, ed in particolare di rilievo artistico, storico e culturale. Immediatamente ne sono stati coinvolti siti come il Ground Zero, il memoriale di Srebrenica, il cimitero militare di Arlington e, ma guarda un po’, anche il campo di Auschwitz. Gli inviti delle autorità a risparmiare i luoghi della memoria, quella tanto dolente quanto carica di significati civili e morali, ottengono quasi sempre risultati incerti. In un primo momento si manifesta l’indisponibilità, variamente motivata, salvo poi fare seguire un imbarazzato divieto al prosieguo dei “giochi”. Già nella settimane trascorse era stata peraltro rimossa un’altra “App”, creata da una scuola spagnola e dedicata ad Auschwitz, con la promessa, rivolta agli utenti, di vivere una esperienza “come un vero ebreo nel campo di concentramento”. Più in generale, la tentazione di trasformare la storia dei Lager in una esperienza simulata, completamente virtuale, è da tempo che trova riscontri nel web. Al di là dell’esecrazione, la questione della “colonizzazione” di spazi pubblici da parte di attività ludiche e commerciali solleva parecchi problemi. Il primo tra essi è la distanza che intercorre, nelle nostre società, tra dimensione virtuale ed esperienza del reale. La questione dell’uso di memoriali, musei, siti della storia e della memoria per finalità che sono diverse, se non alternative e, per certi aspetti, addirittura oppositive alle ragioni per cui i primi sono stati creati, evoca non solo una questione di senso della misura, di decenza e di opportunità, come di primo acchito parrebbe, ma una più radicale domanda su quale sia la frontiera tra comprensione dei fatti storici, loro acquisizione in termini di consapevolezza critica e ricorso sistematico alla manipolazione che, invece, subentra nel momento in cui tutto si trasforma in una sorta di videogame. La differenza tra vero e falso sembra infatti sempre più spesso essere sostituita dal gioco tra reale e virtuale, tra esperienza concreta e sua trasformazione immaginaria, tra materialità e immaginazione fine a sé. Quest’ordine di questioni travalica l’aspetto per l’appunto strettamente morale, ponendo semmai quesiti sulla cognizione non solo del passato ma anche del presente da parte di coloro che si sentono, o si credono, immersi in un flusso continui di stimolazioni virtuali, dove il confine tra fatti reali e sollecitazioni fantastiche viene abbondantemente reso oggetto di elisione. La storia, in questo caso, non è più il prodotto di una serie di eventi appurabili ma semplicemente il risultato di una “interpretazione” che, come tale, può benissimo essere sostituita a seconda delle necessità dettate dalle circostanze. In Pokémon Go l’elemento di ulteriore incidenza è dettato dall’uso diretto ma accessorio del territorio fisico. Si cammina, e molto, alla ricerca dei target, tuttavia attraverso la costante mediazione del monitor di uno smartphone. Non si guarda il terreno ma lo schermo. L’ambiente circostante è una variabile di quello virtuale. Conta nella misura in cui agevola o rende difficili le esplorazioni. Si ha quindi un rapporto diretto, stando sul territorio e non smanettando da un pc domestico, nel chiuso del proprio appartamento o di un luogo comunque separato, ma accessorio poiché di quella porzione di luoghi nei quali si cammina per compiere la caccia l’interesse è esclusivamente limitato alle asperità o alle facilità che si incontrano per raggiungere il proprio target. Stare al Colosseo o ad Auschwitz, in una piazza di mercato piuttosto che al Louvre, è indipendente da ciò che questi luoghi contengono (e ricordano). Sono dei transiti. Non di meno, un secondo ordine di problemi rimanda al carattere di merce con la quale oramai ogni cosa viene fruita nelle nostre società. Per meglio dire, agli infiniti percorsi della mercificazione. Anche in questo caso le considerazioni non sono di ordine etico, men che meno moralistico, rinviando piuttosto al tipo di concezione che abbiamo delle relazioni sociali e, in immediato riflesso, degli obblighi che avvertiamo verso gli altri. Poiché i processi di mercificazione istituiscono una sorta di eterna equivalenza tra elementi, fattori, oggetti e situazioni altrimenti tra di loro diversi. Stabiliscono, anche in questo caso, la loro intercambiabilità poiché tutto sarebbe corrispondente e, quindi, sostituibile ad altro. Cosa c’entra, obietterà qualcuno, Auschwitz e ciò che ruota intorno a quello e ad altri Lager con questi discorsi? Ha a che fare nella misura in cui è da tempo entrato in un cono d’ombra dove la commercializzazione della storia diventa una delle modalità prevalenti della sua fruizione. Il paradosso è che non si ha diffusione della cognizione dei fatti storici se non si fa ricorso a quelle forme di comunicazione di massa dove gli eventi sono ricondotti ad una vera e propria merce, fruibile così come si fa con tante altre cose. Senza arrivare a certi estremi, di per sé imbarazzanti e quindi anche intollerabili per certuni (ma non per molti altri), basti pensare agli “Auschwitz tour” che vengono proposti al turista che passa per Cracovia o nell’Alta Slesia. Sono oramai parte di un catalogo rivolto alla collettività, costituiscono fonte di guadagno e soddisfano aspettative e “bisogni”, non importa quanto indotti artificiosamente. Due elementi, questi ultimi, che sono perennemente captati (e anche rigenerati) nonché inglobati dentro il circuito del consumo. Detto questo, la questione di fondo non sta nell’accettare supinamente o nel rifiutare superbamente questo stato di cose. Neanche nel chiudersi in una sorta di inconsolabile lamentazione sullo “spirito dei tempi senza spirito”. In quanto fenomeni sociali, la mercificazione e la virtualizzazione dell’esperienza non sono il prodotto di semplici atti di volontà, ancora meno di dichiarazioni di principio, tanto più se esclusivamente individuali. Del pari, non possono essere affrontati criticamente come se, invece, fossero riconducibili a quella esclusiva matrice. Non se ne verrebbe comunque a capo, scadendo semmai nell’invettiva moralistica che diviene la polemica degli impotenti dinanzi al riscontro ripetuto dell’inefficacia dei propri gridi. Non di meno, altrettanto inefficace se non deleterio è il pensare che si possano “recintare” alcuni elementi della nostra quotidianità, dal momento stesso che abbiamo voluto che essi ne entrassero a fare parte, illudendosi che possano essere mesi al riparo dagli effetti di un loro uso virtuale e mercificato. Che vi sia una tentazione diffusa alla resa in termini trash degli aspetti più tragici della storia recente è un dato con il quale bisogna confrontarsi senza la tentazione di ripararsi dietro ad improbabili veti. Questi ultimi, infatti, si tradurrebbero semmai in veri e propri tabù, prima o poi da violare e abbattere così come si fa attraverso l’iconoclastia. Le tragedie umane non hanno nulla di sacro, semmai essendone la negazione quand’essa riposi nel volto di quegli individui che sono ridotti al rango di vittime e di offesi senza consolazione. Una funzione civile del ricordo, quindi, implica il non rivestirlo di significati metafisici. Dopo di che, rimane la sfida dei modi in cui il passato viene piegato alle esigenze del presente. Pokémon Go, nella sua irritante, petulante, compulsiva, fanatica riproduzione di un gioco virtuale trasposto in luoghi fisici, è solo un esempio, e neanche il più importante, di come l’orizzonte della costruzione di significati morali condivisi debba confrontarsi con la dimensione di una virtualità dove ciò che conta è soprattutto la fantasia. Una competenza, quest’ultima, che da qualità dell’intelligenza può trasformarsi in delirante esercizio di demenza digitale.


Claudio Vercelli

(31 luglio 2016)