…Alberta

Mia nonna, Bruna Levi, è nata nell’aprile del 1915, un mese prima dell’entrata in guerra dell’Italia, tempi difficili. Era la prima di quelle che sarebbero state le mitiche tre sorelle Levi (chissà come rodeva il nonno Carlo, neppure un maschietto). La seconda, Alberta, nacque nel 1919, subito dopo la Grande Guerra. Nel frattempo Carlo e Bianca (i genitori) si erano visti ben poco, Carlo al fronte, sul Carso, e Bianca a casa a Guastalla. Carlo se l’era fatta a piedi la ritirata di Caporetto, fino al suo paese in Emilia. Alberta – che è il soggetto di questa mia breve riflessione – era nata come segno dell’ottimismo, della fine di quella che avrebbe dovuto essere l’ultima guerra. E questo tratto rimase in lei caratteristico sempre: una visione positiva della vita, anche nelle situazioni più tragiche (e tante ne dovette affrontare). Poi, subito prima dell’avvento del fascismo, nacque anche Piera, la più giovane. Lei in seguito si innamorò di un cugino veneziano e alla fine decise di seguirlo in Palestina dopo la guerra e di generare con lui nella nuova terra d’Israele una miriade di figli e nipoti. Tutti i figli, i nipoti e i pronipoti di queste tre sorelle hanno fra loro un legame particolare, che si rinnova spesso in momenti di gioia, quando nascite e matrimoni puntellano le varie dinamiche famigliari. Da tre ragazze di Guastalla siamo diventati più di 50, sparsi un po’ ovunque nel mondo. Che poi se consideriamo anche i membri della famiglia cugina dei Ravenna e dei discendenti Pardo, beh, i numeri diventano da tribù.
Questa notte Alberta, per me la zia Alberta, ha deciso di seguire le sue sorelle e di andarsene, alla giovane età di novantasei anni. Intendiamoci, lo sapevamo. Era da tempo che ce lo diceva in tutti i modi. Ma lo faceva sempre con quella sua voce positiva e autorevole, dolce e convincente, che ci prospettava sempre e comunque un avvenire positivo a cui guardare con fiducia e verso il quale lavorare con l’impegno personale. Due giorni fa l’ho chiamata e sapevo che l’avrei sentita per l’ultima volta. La sua voce particolare stava ormai svanendo in percorsi che portavano lontano, nel passato della famiglia a cui tutti eravamo e siamo legati. Se ne potrebbero dire tante su Alberta, e tanti hanno scritto su di lei. La sua vita è finita in romanzi, in lunghi articoli, interviste. L’ultima uscita pubblica, per così dire, è stata offerta a tutti gli italiani quando è stata celebrata con altre dieci donne come una delle “ragazze del ’46”, le prime donne che votarono in Italia. Ma io di lei voglio ricordare principalmente il suo aspetto caratteriale, o per lo meno quello che mostrava a me. Lo faccio perché credo che sia importante dirlo forte: mia zia Alberta è stata un simbolo di resilienza e di resistenza. Ha saputo affrontare prove estreme e rielaborarle in forme sempre positive. Ha superato con coraggio l’epoca delle persecuzioni razziste e subito (subito!) dopo si è sposata, per rispondere con la generazione alla distruzione. Ha supportato fino all’ultimo il suo amatissimo marito, per me lo zio Fabio (Temin), che mi portava bambino sulla Cinquecento e mi faceva “guidare”. E quando è mancato, lo ha onorato di un amore devoto e continuo. Un amore che l’ha spinta a impegnarsi in un’attività di testimonianza mai lamentosa e sempre forte e positiva, che ha affascinato generazioni di studenti. Le sono grato, perché fra queste generazioni è riuscita ad affascinare anche mia moglie e i miei figli, dando un senso a quella continuità che è, in fondo, il grande dono che l’ebraismo porta con sé. Grazie.

Gadi Luzzatto Voghera, storico

(2 settembre 2016)