Dallo Yemen a Eretz Israel, la grande aliyah

La comunità ebraica dello Yemen non c’è più. Tra i molti conflitti mediorientali, quello yemenita è sicuramente il più trascurato dai media: ma la vicenda degli ebrei di Yemen, dove storia e cronaca politica si intrecciano, sembra addirittura caduta nell’oblio.
La guerra civile e l’ascesa militare degli huthi, i ribelli sciiti zaiditi del nord da sempre ostili verso gli ebrei e Israele, hanno accelerato l’eclissi della presenza ebraica in Yemen: negli ultimi anni, almeno 200 ebrei yemeniti hanno raggiunto Israele, oppure gli Stati Uniti, grazie al coordinamento della Jewish Agency. L’ultima aliyah è avvenuta, nella consueta riservatezza, il 20 marzo 2016, quando 19 ebrei yemeniti sono atterrati a Tel Aviv: secondo l’organizzazione, non vi saranno più viaggi per Israele. Infatti, i rimanenti 50 ebrei di Yemen hanno scelto di restare: di questi, 40 vivono dal 2007 nell’enclave blindata di Sana’a, a due passi dall’ambasciata degli Stati Uniti (chiusa da tempo per ragioni di sicurezza), sotto protezione del governo yemenita fino al golpe del gennaio 2015. La storia degli ebrei locali, soprattutto ortodossi e dediti allo studio dei testi sacri, è da sempre quella dello Yemen. Eppure, non vi è più traccia delle quasi quaranta sinagoghe che negli anni Trenta si ergevano nella capitale, descritte con minuzia dai viaggiatori dell’epoca.
Non vi sono certezze storiche che stabiliscano quando gli ebrei comparvero nel paese, ma numerosi miti e leggende capaci di restituirci frammenti di storia. Nei racconti tramandati per secoli, Re Salomone avrebbe inviato i suoi mercanti in Yemen alla ricerca di oro e argento per le decorazioni del Tempio di Gerusalemme, così come la regina di Saba, la leggendaria e ancora misteriosa Bilqis, avrebbe chiamato a corte proprio un artigiano ebreo, incantata dalla sua sapienza orafa. Abili commercianti, artigiani, gioiellieri, gli ebrei di Sana’a erano maestri nella fabbricazione della janbiyya (il pugnale che ogni yemenita è solito portare alla cintura), ma non potevano girare per la città armati, un paradosso in un paese dove la diffusione delle armi personali è altissima e rappresenta un fenomeno di costume e di rango sociale. Quando l’Islam arrivò in Yemen nel VII secolo, agli ebrei fu conferito lo status di dhimmi, “la gente del libro” che può professare la propria religione in cambio del pagamento di una tassa. Iniziò così la vita con i musulmani yemeniti, sia sunniti di rito sciafeita (oggi il 55% circa) che sciiti di credo zaidita (il 40% circa), tra intolleranza e convivenza, come tratteggiato nelle pagine di Hayyim Habsus, guida ebrea yemenita di alcuni orientalisti europei di fine Ottocento. Gli ebrei poterono godere della protezione tribale dei clan locali, per esempio nelle vallate del Mareb, come testimoniato dal viaggiatore francese Joseph Arnaud nel 1843: percorrendo la via dell’incenso, i mercanti della comunità raggiungevano il grande suq di Sana’a. L’imam Ahmad, che regnò sullo Yemen del nord dal 1948 al 1962, nacque dall’imam Yayha e da una donna yemenita di etnia ebrea.
Di certo, la comunità ebraica yemenita è stata condizionata, in età contemporanea, sia dagli avvenimenti sociali e politici che hanno scosso la regione mediorientale (come l’intermittente conflitto israelo-palestinese), che dalla cronica instabilità interna, culminata nel protagonismo politico e militare del movimento Ansarullah degli huthi, che oggi sfidano, con le armi, il governo legittimo. L’esperienza umana degli ebrei dello Yemen è preziosa non solo perché sta di fatto scomparendo, ma anche perché rappresenta un unicuum nel panorama dell’ebraismo mediorientale. Quella yemenita fu infatti una comunità isolata, nei secoli, sia dai Sefarditi originari della Penisola iberica che dagli Ashkenaziti germanofili; gli ebrei dell’Arabia felix poterono così sviluppare una cultura originale, ramificandosi in due gruppi (gli Shami, provenienti dal Levante arabo, vicini alla liturgia sefardita e i più tradizionalisti Baladi, seguaci degli insegnamenti del filosofo Moses Maimonides).
Il primo massiccio esodo di ebrei dallo Yemen avvenne tra il 1880 e il 1914, quando in molti decisero di trasferirsi in Palestina. Le condizioni economiche e di vita della comunità ebraica locale peggiorarono parallelamente alla diffusione dell’antisemitismo (e dopo il 1948 dell’antisionismo) in Europa e in Medio Oriente. Nel dicembre 1947, un’ottantina di ebrei yemeniti vennero uccisi durante un assalto ad Aden: abitazioni e attività commerciali furono devastate, come accaduto nel 1933. Nel nord, l’imam Ahmad concesse agli ebrei, tra il 1949 e il 1950, di lasciare lo Yemen per raggiungere il neonato stato israeliano, mediante la cosiddetta operazione “Tappeto Volante”. Tale permesso fu accordato, però, non prima che gli ebrei avessero insegnato ai connazionali musulmani i lavori, soprattutto manuali, nei quali eccellevano; una conferma del ruolo significativo che essi ricoprivano nel tessuto socio-economico dell’imamato zaidita e nella stessa città di Sana’a, dove negli anni Trenta operavano numerose scuole ebraiche. Dei 51 mila ebrei stimati in Yemen alla fine degli anni Quaranta, in 50 mila scelsero di raggiungere Israele fra il 1949 e il 1950.
La questione degli ebrei di Yemen ha spesso complicato la già difficile alleanza tra Sana’a e Washington. Le aperture del presidente yemenita Ali Abdullah Saleh nei confronti della comunità ebraica hanno sempre coinciso con la necessità di riannodare il rapporto con gli Usa. Nel 1991, Saleh concesse i visti per l’espatrio a un gruppo di ebrei, che ripararono in Israele: attraverso questa mossa, Saleh tese la mano agli americani, dopo l’astensione di Sana’a sulla risoluzione dell’Onu che autorizzava l’intervento a guida Usa per la liberazione del Kuwait, invaso dal regime iracheno di Saddam Hussein (Sana’a era allora membro non permanente del Consiglio di Sicurezza). Nel 2001 il General People’s Congress (GPC), il partito del presidente Saleh, scelse di candidare alle elezioni parlamentari Ibrahim Ezer, un ebreo yemenita, candidatura poi bloccata da una commissione interna, che sostenne la necessità che entrambi i genitori dei candidati fossero di fede musulmana.
La situazione è poi precipitata nel 2007: gli huthi hanno moltiplicato le minacce e gli atti di intimidazione contro gli ebrei, specie nella regione di Saada, territorio già scosso dalla rivalità armata fra i miliziani sciiti e i salafiti sostenuti dalla confinante Arabia Saudita in chiave anti-huthi. “Dio è grande, morte all’America, morte a Israele, maledetti gli ebrei, gloria all’Islam” è lo slogan che gli huthi sono soliti scandire: gli ultimi ebrei di Yemen abitavano proprio le aree settentrionali (Saada, Amran, Sana’a) già roccaforti dei miliziani di Ansarullah. Nel 2008, durante l’operazione militare “Piombo Fuso” a Gaza (voluta dal governo di Israele per estromettere Hamas dalla Striscia), decine di ebrei yemeniti dovettero lasciare le loro case perché oggetto delle rappresaglie di miliziani huthi, questi ultimi già in guerra con l’esercito nazionale (le 6 battaglie di Saada tra il 2004 e il 2010). Sempre nel 2008, Moshe Yaish Nahari, insegnante ebreo yemenita di Raydah (Amran), venne ucciso, mentre la storica libreria ebraica di Saada (contenente manoscritti antichi e una preziosa copia della Torah) fu saccheggiata. Di fronte all’ultimatum degli huthi contro gli ebrei di Saada, il governo Saleh decise allora di trasferirne circa un centinaio in un’énclave blindata della capitale, per tutelarne la sicurezza. Da allora, si è però saputo pochissimo delle condizioni di vita di questi cittadini sfollati. Alcune organizzazioni non governative presenti sul campo hanno sostenuto che gli ebrei yemeniti ospitati nella struttura non possono avere contatti con i media. Nell’ottobre 2012, attivisti della ONG locale Sawa’a Organization for Anti-Discrimination sono stati arrestati dalle forze di sicurezza governative mentre tentavano di entrare nel compound per una visita, proprio nell’intento di documentare la vita quotidiana della comunità: la stessa organizzazione ha poi denunciato il taglio dei fondi destinati all’énclave di Sana’a da parte dell’esecutivo di transizione.
Nonostante abbiano sempre rivendicato la loro appartenenza nazionale, gli ebrei yemeniti hanno sperimentano una condizione di marginalità sociale e sovente di discriminazione, sia da un punto di vista economico (accesso ai servizi sociali) che politico. Per esempio, i cittadini yemeniti ebrei non possono servire nelle Forze armate. A dispetto degli annunci della vigilia, nessun yemenita di etnia ebraica figurava fra i 565 delegati alla conferenza di Dialogo Nazionale svoltasi dal marzo 2013 al gennaio 2014 e incaricata di riscrivere la costituzione, delineando la fisionomia politica dello Yemen del futuro. Un’assenza che si è riproposta nella commissione ad hoc per la riforma federale nominata e presieduta dal capo dello stato ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi (già vice di Saleh).
Eppure, c’è stato un tempo in cui gli ebrei yemeniti erano, prima di tutto, abitanti delle terre dell’Arabia felix. Essi condividevano con i musulmani, per esempio, il rito della masticazione del qat (le foglie euforizzanti dell’arbusto della Catha edulis), simbolo di identità collettiva in Yemen, persino nel giorno per loro festivo dello shabbat. Nel diciassettesimo secolo, il poeta Salim al-Shabzi (chiamato anche Shalom Ben Joseph Shabbezi), yemenita ebreo, componeva poesie e canzoni d’amore nella città di Taiz, alternando versi in arabo e in ebraico all’interno dei suoi componimenti, esempi di poesia-canto humayni, genere dialettale yemenita di probabili origini sufi.
Il conflitto yemenita e il colpo di stato degli huthi non hanno fatto che accelerare la dispersione, già in essere, della comunità ebraica del paese. Perché nello Yemen sconvolto da una guerra con molti attori locali e regionali, lo shofar (il corno di montone suonato per la preghiera) non risuona più, privando Sana’a di una pagina unica della sua storia.

Eleonora Ardemagni

(Nella notte tra domenica e lunedì, 19 ebrei dello Yemen sono arrivati all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv,)