Kein briere iz oich a breire

francesco-bassanoUna crisi coniugale, un terremoto che con i suoi effetti devastanti destabilizzerà il destino del Medio Oriente e di Israele. Sono i due piani narrativi che si intersecano nell’ultimo romanzo Eccomi di Jonathan Safran Foer (Guanda, 2016). “Eccomi” risponde Abramo prontamente a D-o, quando gli viene chiesto di sacrificare il proprio figlio Isacco. Ma cosa è disposto a sacrificare Jacob, il protagonista, per la sua famiglia e per la salvezza di Israele? Cosa saremmo disposti a sacrificare noi in un’eventuale chiamata?
Jacob è un antieroe tipico della postmodernità, un everyman che potrebbe ricordare A Serious Man dei fratelli Cohen ma anche un qualunque personaggio rothiano, il suo dramma è radicato all’interno di una questione identitaria che coinvolge il suo essere uomo, marito, padre ed ebreo. La sua appartenenza all’ebraismo come quella degli altri protagonisti del libro vacilla, è sfumata e areligiosa, ridotta a dei rituali ormai privi del proprio significato originario o completamente liquidi e reinventati. L’adesione a una sorta di umanesimo e al progressismo sono i valori che sembrano più predominanti a detta di Safran Foer nell’ebraismo americano, nella fattispecie quello conservative a cui la famiglia fa riferimento. Da qui ne deriva il rapporto ancor più conflittuale nei confronti di Israele, basato sulla non comprensione e su un’incapacità a sentirsi parte di questo progetto, una distanza dovuta anche dalla condotta politica di Israele percepita oltreoceano. Quando la fine di Israele apparirà imminente nel mezzo del romanzo, essa verrà avvertita nei personaggi con una sorta di indifferenza e impotenza, tanto che alle numerose chiamate dai toni messianici del Primo Ministro dirette alla diaspora per accorrere a difendere i confini israeliani, risponderanno meno di trentacinquemila americani. La stessa relazione problematica si riscontrerà mimeticamente tra Jacob e Tamir, il cugino israeliano, in un sentimento misto che si alterna tra odio, fascino ed invidia. Questi viene descritto come volgare, materialista e arrogante, seppur in realtà a dispetto delle apparenze, è un individuo ugualmente fragile e tormentato. Il suo ebraismo dovrebbe essere più immediato, ma proprio per questo pare ancora più vago e inautentico rispetto a quello di Jacob.
Kein briere iz oich a breire (anche non scegliere è una scelta) è il leitmotiv che riecheggia in tutto il romanzo, Tamir appare come colui che ha fatto una scelta, quella di avere una patria e lottare per il proprio paese, e quindi di essere qualcosa, Jacob invece sceglie di non scegliere, di non essere, ma in definitiva nessuno dei due ha scelto qualcosa veramente e finiranno per seguire entrambi il proprio destino ineludibile, in contrasto con i propri desideri e le proprie volontà.
Isolato dalla comunità e considerato un po’ meshuge v’è poi il padre di Jacob, Irv, un blogger impegnato nell’hasbara e nella strenua difesa di Israele senza se e senza ma, distante persino da Tamir, il quale vive il conflitto in prima persona. Il “Noi” è del resto un pronome che sfugge continuamente all’interno del romanzo, e lascia sempre il posto a delle individualità chiuse in se stesse e incomunicabili tra loro. “La nostra storia ci ha insegnato che essere forti è più importante che avere ragione […] meglio essere vivi, cattivi e nel torto” afferma Irv. Ma il rabbino incaricato nel pronunciare l’elogio funebre del nonno Isaac, risponderà invece più avanti che la Torah “chiarisce in modo inequivocabile che l’ambizione più alta non è la vita in sé, e quindi la sopravvivenza, ma l’essere giusti […] il genere umano si salva non perché merita di essere salvato, ma perché la rettitudine di pochi giustifica l’esistenza di altri”.
In conclusione seguendo i classici modelli narrativi tutto in qualche modo si stabilizzerà e ritornerà allo status quo ante, Jacob riuscirà a sopravvivere nonostante il divorzio, e al tempo stesso la situazione in Medio Oriente tornerà alla “normalità”, lasciando però all’interno di tutte le relazioni considerate nel romanzo una frattura ancora più profonda ed insanabile. Come scrive Tamir in un messaggio a Jacob, Israele “vince la guerra, ma perde la pace”.
L’ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer è un’opera con cui fare i conti, la quale potrebbe essere sotto determinati aspetti irriverente, controversa, e non pienamente condivisibile, ma che pone comunque molte domande e offre innumerevoli occasioni di riflessione.

Francesco Moises Bassano

(31 marzo 2017)