Social, invidia e paranoia

Tobia ZeviUna volta ci si incontrava al bar. Ci si conosceva, tutti sapevano più o meno chi fosse credibile e chi no. Se uno la sparava troppo grossa, lo si canzonava, se un altro stava sempre zitto, lo si guardava con diffidenza o talvolta ammirazione. Non che mancassero calunnie e dicerie, anzi. Più piccolo era il contesto, più ci si accaniva sul diverso e sul debole. Nessun piccolo mondo antico, per carità. Ma quelle voci pure ostili rimanevano confinate in piccoli o piccolissimi gruppi.
Oggi, invece, ogni balla o maldicenza ha un potenziale di diffusione infinito. Grazie ai social media, chiunque pensa di conoscere tutto, e quindi rischiamo di sapere sempre meno. Prendiamo alcune delle fake news più diffuse nel nostro paese: Matteo Renzi sarebbe in affari con Vladimir Putin; i profughi vivrebbero a sbafo, con schermi al plasma e migliaia di euro in tasca; il cugino di Laura Boldrini sarebbe stato assunto come posteggiatore al Senato, con tanto stipendio da trenta mila euro al mese; i vaccini farebbero male e servirebbero solo alle compagnie farmaceutiche; svariati politici sarebbero mafiosi, e non mancherebbero foto su foto ad attestarlo.
L’assurdità di tali informazioni non merita commenti. Interessante è invece provare a coglierne i meccanismi costanti. A mio modo di vedere sono essenzialmente due: paranoia e invidia. La prima si manifesta in una concezione del mondo manichea, che individua una classe di persone benestanti, privilegiate e raccomandate, che avrebbe accesso a vantaggi e piaceri di ogni tipo, e una massa di esclusi, sfruttati e vilipesi; la seconda, che ne è invece il corollario, si esplica in un sentimento che non sprona all’azione, ma induce piuttosto alla protesta sorda: una dinamica per cui pare logico che a godere di enormi fortune sia chi ha un cugino importante, e che rende desiderabile persino la condizione terribile di un migrante recluso in un centro.
A ben vedere, questi due sentimenti non sono nuovi. Se ci pensiamo, ne abbiamo parlato anni fa a proposito del negazionismo della Shoah. Le persone risultano permeabili al pregiudizio che considera gli ebrei occulti padroni del mondo, e in virtù di questa percezione giungono a ritenere vantaggiosa la condizione di vittima, foriera di chissà quali convenienze. Anche questa volta, dunque, il sentimento antisemita risulta anticipatorio e rivelatore rispetto alle tendenze culturali e sociali più pericolose.
Vale dunque – senza entrare nel dettaglio – ciò che sostenevamo allora: con la massima durezza vanno colpiti coloro che grazie alle notizie false guadagnano consenso, visibilità o soldi; ieri erano sedicenti intellettuali, oggi movimenti politici o addirittura apparati riconducibili a stati esteri. Quanto agli utenti, vittime inconsapevoli o complici di queste fandonie, continuo a ritenere che sia assai difficile pensare di proteggerli con strumenti normativi, repressivi o aziendali. Tanto più mentre accelera la rivoluzione digitale. Sono ancora convinto che non esista alternativa al paziente, tenace, informato e profondo lavoro di educazione, educazione, educazione.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas Twitter @tobiazevi