Onda nera, ombra grigia

torino vercelliNo, non c’è un’onda nera che sta per sommergerci. Tuttavia, poiché in politica il vuoto viene sempre coperto, in genere più prima che poi, un segno chiaro e netto di ciò che stiamo vivendo è dato anche dalla rinnovata capacità di alcuni organizzazioni del radicalismo di destra di presentarsi sulla scena, raccogliendo il rifiuto di molti ma anche il consenso di non pochi altri. Così per le ultime, insistite manifestazioni di Forza Nuova, i flash mob intimidatori contro la redazione di un giornale piuttosto che nei confronti dei membri di un’associazione. Oppure per il crescente radicamento territoriale di CasaPound, espressione del «fascismo del terzo millennio». Altro tuttavia bolle in pentola, per un’area che pur scontando una perdurante marginalità (ed emarginazione), può contare senz’altro su un incremento di assensi e attenzioni, non solo da parte di sostenitori dichiarati ma anche in una “fascia grigia” alla ricerca di rappresentanza e riconoscimento collettivo. La visibilità mediatica di questi ultimi mesi svolge infatti un effetto di “trascinamento” e di immedesimazione: a fronte di un numero crescente di iniziative di piccolo cabotaggio (esposizione di striscioni; redazione di scritte abusive; comparsate veloci, repentine e rumorose in luoghi pubblici e così via, ma anche violenze e aggressioni), svolte quasi tutte da quadri militanti, l’effetto di riverbero e l’eco amplificano la rilevanza d’impatto del fenomeno neofascista. D’altro canto, l’arcipelago del radicalismo di destra ha conosciuto un profondo mutamento, del pari all’intero scenario politico, dovendosi confrontare con i cambiamenti che hanno accompagnato questi ultimi trent’anni: la caduta del muro di Berlino, la fine del bipolarismo e del sistema a socialismo reale, soprattutto i processi di globalizzazione e i loro effetti. Non più la lotta contro il comunismo, quindi, ma il rifiuto dell’immigrazione in quanto prodotto di un «complotto»; non la nostalgia per il passato ma la proiezione su un futuro a venire, cercando di uscire dai limiti imposti dagli antichi steccati ideologici di area; non la rappresentanza della vecchia «maggioranza silenziosa», perlopiù espressa dal ceto medio, ma l’attenzione verso quanti stanno pagando un tributo elevato alle trasformazioni sociali ed economiche in corso. Il fascismo, peraltro, non è mai del tutto scomparso dal palcoscenico italiano. Afflosciatosi come un palloncino il 25 luglio del 1943, dopo vent’anni circa di regime liberticida e dittatoriale, con la fine della Seconda guerra mondiale si è rigenerato come circuito di gruppi, movimenti e personaggi più o meno underground. A lungo il nostro Paese ne ha tollerato una rappresentanza istituzionale, quella del Movimento sociale italiano. Non era il frutto di una concessione ma il risultato di un calcolo di realismo politico, piuttosto diffuso, e quindi trasversale, tra le forze che erano parte del cosiddetto «arco costituzionale». Il presupposto era infatti duplice. Da una parte, vietare legalmente un partito della destra estrema non avrebbe cancellato con un colpo di bacchetta magica i suoi sostenitori ed elettori, men che meno risolvendo il problema della persistenza di un’area politica che aveva comunque determinato le sorti del Paese per vent’anni. Dall’altro, l’intelaiatura istituzionale, politica e culturale della Repubblica italiana, pur essendo fondata sull’antifascismo, non poteva tuttavia censurare aprioristicamente le espressioni delle diverse opinioni, quand’anche esse si fossero rivelate radicali. L’apologia di fascismo (seconda la legge Scelba del 1952), e ancora di più la riorganizzazione del partito fascista (XII disposizione transitoria e finale della Costituzione) erano rigorosamente vietate. Ma non si poteva (né peraltro sarebbe riuscito nei fatti) sottoporre ad un vaglio preventivo ogni manifestazione di pensiero, semmai delegando alla magistratura l’eventuale perseguimento di un certo dire o di un determinato fare quand’essi si fossero rivelati dei reati. Questa, quindi, era la cornice legale dentro la quale il neofascismo si è mosso. Nel corso del tempo, peraltro, diverse organizzazioni del suo milieu sono state sciolte dai giudici (Ordine nuovo e Lotta di popolo nel 1973; Avanguardia nazionale nel 1976; Lotta popolare nel 1978; Terza posizione e costruiamo l’azione nel 1980; Fronte nazionale e Movimento politico nel 1993, a seguito della legge Mancino). Com’era prevedibile, se ciò era tanto necessario dal punto di vista del mantenimento della legalità istituzionale e della legittimità costituzionale, non altrettanto rispondeva alle logiche politiche, che si alimentano ben oltre la prima e la seconda. Il neofascismo extraparlamentare ha peraltro accusato ben presto gli effetti del declino e della consunzione del bipolarismo nell’arena internazionale, non risultando più necessario nella sua funzione anticomunista. Già negli anni precedenti, la crisi della militanza aveva provveduto a mietere molte vittime. A fronte del “riflusso nel privato” di una parte delle falangi radicali, altri si erano persi nei meandri dello «spontaneismo armato», finendo perlopiù in cella se non peggio ancora. Il neofascismo parlamentare, invece, dopo la morte di figure carismatiche come Giorgio Almirante e Pino Romualdi, aveva iniziato un lungo percorso che lo avrebbe portato ad una diaspora ancora ad oggi irrisolta. Rispetto soprattutto a questo secondo caso, diverse erano comunque state le traiettorie delle nicchie più esacerbate, quelle che da sempre guardano non solo all’eredità del fascismo storico ma anche al neonazismo. Se nella prima metà degli anni Novanta il fenomeno dei cosiddetti «naziskins», ispirati alla subcultura Skinhead, aveva raccolto una grande attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, un decennio dopo, l’evolvere della crisi economica, lo stallo dell’Unione europea e la crescita dei neonazionalismi populistici ha dato rinnovata forza ad un’area che nel mentre si è ridisegnata sia nei confini ideologici che nei soggetti politici che sono entrati a farne parte. Non si è trattato di un processo autonomo, semmai alimentandosi delle crescenti incongruenze che la politica dei partiti e dei movimenti tradizionali ha ripetutamente manifestato, rivelandosi infatti incapace di dare risposte convincenti ai bisogni di quella parte della società che si sente punita e declassata dalle crescenti diseguaglianze. A quest’ultima, quindi, la destra radicale rivolge adesso la sua attenzione e le sue cure, cercando in qualche modo di sdoganarsi da sé rispetto ad un passato ancora recente, dove il rimando alla militanza faceva il paio con la polemica contro il «mondo borghese» ma anche con la collusione con quelli che sono stati definiti «apparati deviati dello Stato» (a partire dalla brutale stagione dello stragismo). Anche per tale ragione l’antiliberalismo è divenuto il tratto più marcato del suo modo di presentarsi e di fare atto di proselitismo. Il liberalismo viene fatto coincidere in tutto e per tutto all’ordinamento economico, denunciandone l’individualismo come sinonimo di mancanza di solidarietà. Oggi la destra radicale punta meno all’obiettivo politico (Stato) e maggiormente a quello sociale (cercando quindi consenso in un bacino altrimenti preclusogli), in un processo di fascistizzazione dal basso che cerca di costituire chance per se stessa partendo dalla base della piramide, quella composta da donne e uomini angosciati dalla portata dei mutamenti intercorsi in questi anni. Ad essi si rivolge, presentandosi come un soggetto di coesione sociale. Ciò facendo, manifesta alcune analogie con quei movimenti del radicalismo islamista, come Hamas ed Hezbollah, che hanno fatto della presenza continuativa sul territorio la ragione stessa della loro esistenza. Su questa convergenza di modelli (e di modalità di azione), non trattandosi di una questione puramente teorica o accademica ma della comprensione dei criteri con i quali l’estremismo, anche quello più violento e criminale, riesce a mietere consensi, sarà quindi bene tornare a riflettere. Poiché se l’onda non è immensa, la sua durata non sarà comunque effimera.

Claudio Vercelli