Rifugiati

Anna SegreCon una padre rifugiato (in Svizzera) e una madre nata in Eritrea è inevitabile che io mi senta chiamata direttamente in causa dalla vicenda della minacciata espulsione da Israele di migliaia di rifugiati eritrei e sudanesi. So bene che in uno stato democratico com’è Israele la società civile non ha bisogno di un’imbeccata dagli ebrei della diaspora per mobilitarsi (e infatti qualche giorno fa un interessante articolo di Dario Calimani dava conto delle numerose iniziative che molti israeliani stanno già mettendo in atto senza attendere appelli e sollecitazioni da parte nostra). E tuttavia, per quanto la nostra voce forse non sia essenziale, credo sia nostro dovere farla sentire perché non è una voce come tante altre.
La fuga dal proprio paese, l’ingresso clandestino in un altro, il timore di essere respinti, le notizie sui respingimenti e sulla sorte dei respinti sussurrate con angoscia e sgomento. Quando ho cominciato a sentir parlare di queste cose? Quando mia nonna ha iniziato a raccontarmele? Senza dubbio prestissimo, dato che i sei anni che mio padre aveva in quei racconti mi sembravano un’età considerevole. La memoria ha molte sfumature: non c’è solo la differenza tra chi ha vissuto i fatti in prima persona e chi li ha sentiti raccontare. È molto diverso sentirli raccontare a tre, a dieci o a diciotto anni, è diverso sentirli raccontare venticinque o settant’anni dopo che sono avvenuti, è diverso sentirli raccontare da chi allora era adulto o da chi era bambino, è diverso sentirli raccontare da estranei o dai propri genitori e nonni. I ragazzi di oggi, anche ebrei, non potranno mai sentire le storie di fughe e di rifugiati come le abbiamo sentite noi. Non è detto che per noi sia stato un male. Certo, è una gigantesca responsabilità.
Per questo credo che, comunque si evolva la vicenda dei rifugiati in Israele e il dibattito sul tema, l’ebraismo italiano non possa fare a meno di parlarne.

Anna Segre