…figli

L’infanzia berlinese disegnata da Gershom Scholem nel suo “Da Berlino a Gerusalemme”, ripubblicato da poche settimane da Einaudi, è il ritratto di una formazione culturale molto prima che politica. Il libro tratteggia una società e un ambiente che sono berlinesi ed ebraici – verrebbe da dire: berlinesi perché ebraici, ebraici perché berlinesi –, e compone un giardino zoologico che forse stava già finendo nel momento dello splendore massimo, agli albori del Novecento, ma senza dubbio è stato sepolto nei lager della morte del regime nazista.
È un libro che racconta un itinerario autobiografico, da Berlino a Gerusalemme appunto, e che con non rara ironia interseca vicende e vite di quel mondo di ieri. Tra le molte cose, Scholem scrive di se stesso e dei suoi fratelli. Quattro figli, quattro modi tipici attraverso cui l’identità degli ebrei europei, o almeno degli ebrei tedeschi, è stata declinata.
Il figlio maggiore, Reinhold, volontario nella Grande guerra, sviluppa una posizione di forte conservatorismo e accentua la tendenza all’assimilazione già del padre. “Divenne membro del Partito popolare tedesco, e sarebbe entrato nel Partito nazionale tedesco” di Hugenberg “se vi fossero stati ammessi gli ebrei”. Emigrato in Australia nel 1938, dopo la Shoah continua a dichiararsi “nazionalista tedesco” nello stupore generale. “Non mi lascerò prescrivere le mie opinioni da Hitler”, sostiene.
Erich, il secondo figlio, “fu membro del Club democratico e seguì le orme dei genitori, specialmente di mia madre, ossia volle soprattutto pace e tranquillità”.
Il terzo figlio, Werner, milita per anni nella sinistra del Partito socialista. “Venivamo talvolta alle mani, perché mi voleva costringere ad ascoltare discorsi socialisti da lui composti, rivolti a un pubblico immaginario e che voleva tenere a me da una sedia – impresa a cui mi ribellavo violentemente”. Werner è poi tra i fondatori del Partito comunista tedesco, dal quale si allontana a partire negli anni successivi alla presa del potere da parte di Stalin in Unione Sovietica. Deportato politico, viene assassinato nel campo di Buchenwald nel giugno 1940 ed è il dedicatario del libro.
E infine il quarto figlio, Gerhard, che diventerà Gershom, sente l’esigenza di un rinnovamento per l’ebraismo tedesco, da decenni inoltratosi sul terreno ricco di soddisfazioni individuali, ma anche paludoso e malfermo dell’assimilazione. Questo rinnovamento elegge a proprio strumento la risalita alle fonti: alla lingua ebraica innanzitutto, e per suo tramite al Talmud, ai commenti medievali, ai cabalisti di età moderna. Alla risalita alle fonti, che apre scenari nuovi negli studi di ebraismo, corrisponde presto l’adesione al sionismo politico. Quest’ultima è però conseguenza, e non causa, dell’idea cardinale e fruttifera di ritorno alle fonti, cioè alle origini, che informa tutto il lavoro intellettuale di Gershom. A metà degli anni venti la scelta dell’aliyah nella Palestina mandataria, proprio mentre a Gerusalemme apre i battenti l’Università ebraica.

Giorgio Berruto, Hatikwà